
Qui i due artisti, celebri come star, son fermati per strada dai passanti benestanti o barboni, arabi o inglesi, giovani o anziani, vicini di casa o turisti. Qui, dove tutto si confonde tra l’odore del curry, il rumore dei cantieri che stanno ampliando la city, il traffico dei furgoni che ronzano intorno al vecchio mercato di Spitalfields, c’è il punto di osservazione migliore per vedere come il mondo cambia.
«Here is the world. Nessun altro posto potrebbe ispirarci quanto questo quartiere. Un tempo dalla Liverpool Station uscivano solo inglesi di mezza età, vestiti maluccio, tristi, grigi e depressi. Andavano a lavorare negli uffici e alle otto tornavano nei sobborghi dalle loro famiglie e la città moriva. Ora da lì arriva la frenesia globale, uomini e donne di ogni paese, energia, movimento… ».
George parla, Gilbert annuisce. Poi Gilbert parla e George annuisce. Le molte gru danzano nei nuovi cantieri, le betoniere lavorano a pieno ritmo, persino il cielo sembra diverso da quello immortalato in un mitico film, “The world of Gilbert&George”, il loro canto d’amore per l’Inghilterra, per il quartiere, per Londra tutta quando al cielo dell’East End mancava il riverbero azzurro-acciaio degli edifici cresciuti uno accanto all’altro negli ultimi vent’anni.
Fu un vero e proprio film quello scritto, diretto e interpretato da Gilbert&George. Pellicola persa, ritrovata e ora infine restaurata dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con Milestone Film, e che sarà presentata dalla Festa del Cinema di Roma il 17 e 18 ottobre.
[[ge:espressoarticle:eol2:1598829:1.3516:article:https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2007/05/08/news/wonderful-world-gilbert-george-1.3516]]Era il 1981, inizio di una nuova epoca. La nascita di un’iconografia che in tempi quaresimali fatti di arte concettuale e minimal riportava l’attenzione sui colori, sulle architetture e soprattutto sulla città come condizione umana. «Il minimal e l’astratto sono forme imperative e dittatoriali che provengono dalla religione e non sono mai state nostre. Fin da studenti sentivamo il bisogno di riportare al centro dell’opera quei sentimenti che l’arte aveva congelato e allontanato: pensieri, speranze, paure, sogni, amori, incubi, disastri, profezie, memorie e lacrime». Fu la base di una nuova poetica, oggetto di performance, fotografie, diversa grammatica di immagine. Un linguaggio che univa estremo controllo formale e grande eleganza a contenuti spesso provocatori, estremi, scandalosi. Escrementi, falli, fluidi umani insieme a simboli religiosi e frasi ribelli. Un’anarchica e profonda insofferenza ad ogni forma di potere e di ipocrisia, espressa in coloratissimi cicli di opere che scombussolarono e conquistarono il mondo.

«In patria il film non fu capito. Ma l’anno dopo, nel 1982, alla Documenta di Rudi Fuchs fu proiettato ogni giorno per un’intera estate e visto da moltissimi artisti giovani». Gli stessi che dieci anni dopo tra le alcove elevate a scultura (Tracey Emin), i monumenti alle cicche (Damien Hirst) o il senso di colpa tatuato sul corpo (Douglas Gordon) trasformeranno anche loro amori-amanti-vizi-emozioni in opere e cambieranno la percezione stessa dell’arte contemporanea consacrando Londra a cuore della cultura visiva contemporanea.
«All’epoca invece», racconta George «per essere un “contemporary artist” dovevi andare a New York e a domanda rispondere che fra i tuoi riferimenti e i tuoi maestri c’erano almeno tre pittori francesi e uno americano. Io avevo deciso di vivere a Londra e quando mi si chiedeva “quali sono le tue fonti di ispirazione?” rispondevo “mamma e Gesù”». «La verità», prosegue Gilbert «è che non volevamo somigliare a nessun altro e stavamo cercando un’estetica assolutamente autoriferita. Non fu facile. Essere una coppia ci dava forza e coraggio ma negli altri creava diffidenza». E George aggiunge:«Ci siamo a lungo sentiti rifiutati, non capiti, ridicolizzati, costretti a ripeterci l’un l’altro: “Tranquillo: un giorno ci daranno credito”». Poi Gilbert racconta:«Ho lasciato le Dolomiti dove sono nato quando avevo appena 14 anni, non ci sono più tornato. Mi trasferii a studiare prima in Austria e poi a Monaco. Ma quando sono arrivato a Londra negli anni Settanta ho capito quanto fosse polverosa la Germania. Non c’era, e non c’è, altro luogo al mondo che coltivi come l’Inghilterra la democrazia e la libertà dell’individuo. È la terra della Magna Carta, della rivolta dei contadini prima della rivoluzione industriale, e della libertà di stampa: è la patria del suo primo difensore, quel radicale giornalista del Settecento celebrato proprio nella strada qui accanto, (John) Wilkes Street». George conclude: «Per noi la libertà è il presupposto di tutto. È dal 1968 che lavoriamo in questa direzione. “Art for all” fu uno dei nostri primi slogan, quando l’arte era per pochi, le gallerie luoghi frequentati da un’élite, e le opere incomprensibili ai più. Puntiamo a un linguaggio accessibile ad ogni uomo, per questo siamo dei conservatori». E di provata fede, al punto da appendere un poster col faccione di David Cameron nel loro ordinatissimo studio/laboratorio. Sempre stati monarchici fedeli, supporter della Thatcher, sostenitori della Brexit e ora convinti che Theresa May sia una donna di grande intelligenza e levatura morale. «Nel mondo normale un qualsiasi proletario può essere di destra senza subire criminalizzazioni, ma nel mondo dell’arte vige l’obbligo di essere di sinistra. Son ben accetti colleghi milionari sedicenti socialisti che pensano solo a investire i loro soldi per farne di più, ma criminalizzati due signori di destra che spendono ogni guadagno tra lavoro e beneficenza. Preferiamo occuparci della salute del barbone all’angolo piuttosto che di generiche, astratte, categorie come “operai” o “insegnanti”. Se al centro del nostro lavoro c’è l’uomo con i suoi pensieri e le sue passioni, l’uomo è singolare, non plurale».
Così, in questa schizofrenica atmosfera di inizio ottobre dove a Londra si celebra la prima Art Week in tempo di Brexit; dove il “main sponsor” della fiera simbolo della contemporary art è ancora la Deutsche Bank; dove il dimissionario - e tedesco - direttore del Victoria&Albert, Martin Roth rilascia velenose interviste contro il nazionalismo inglese e prepara i bagagli per Berlino e dove, infine, l’oscillazione monetaria fa sì che tra gli stand di Frieze si tratti per la prima volta in euro anziché sterline… ebbene, in tanta confusione, la dichiarazione “pro leave” di Gilbert&George non appare neanche così sorprendente.
La domanda se il voto contro l’Europa da parte di due artisti anarchici, eccentrici, controcorrente aperti alle novità del mondo non sia un preoccupante segno dei tempi, scatena la reazione: G&G rispondono alternandosi, l’uno rafforza l’altro, le frasi s’incastrano, i paradossi corrono, le argomentazioni si accavallano. «Non siamo contro l’Europa, è un voto contro la Merkel e contro le burocrazie di Bruxelles». «Nessuno può essere autorizzato ad essere così gelido e a comportarsi come un pezzo di pietra come sta facendo l’Unione nei confronti di alcuni suoi stessi membri». «In fondo l’Inghilterra non ha mai desiderato far parte del club, le interessavano solo gli accordi commerciali». «Come fate a non vedere che i tedeschi stanno già ricostruendo il sogno della Grande Germania?». «Se non tutti desiderano di diventare tedeschi non è una colpa». «Non abbiamo niente contro gli immigrati. Viviamo da cinquant’anni in un quartiere d’immigrati e pensiamo sia il più interessante del mondo! Però questi flussi non sono in equilibrio. Mentre migliaia di polacchi si trasferiscono in Inghilterra, non vedo migliaia di inglesi trasferirsi in Polonia!» «La verità è che un artista inglese entra in un museo tedesco solo se il direttore non è tedesco».«Al contrario ogni inglese sente l’Europa come la sua casa. Ma quella che state costruendo non ha niente a che fare con la cultura, le passioni e i bisogni umani. È un contratto fra banche e poteri. Non possiamo confondere la storia del Regno Unito con la burocrazia della vostra Unione Europea». «Avete mai calcolato quanta pittura europea ospiti la Gran Bretagna nei suoi musei e quanto poco invece sia rappresentata l’arte britannica nei vostri?» E via così. È la Brexit che parla con la voce di Gilbert&George in diretta dall’East End, centro di Londra, cuore del mondo.