Il commercio delle merci in frenata, l’Europa che diventa autarchica, l’Asia che perde il motore Cina. Ecco perché il modello che ha trainato l’economia mondiale è al capolinea

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La globalizzazione è vicina alla sua fine come molti prevedono o auspicano? E il rallentamento del commercio mondiale, del trasferimento di beni, di sistemi di produzione, di denaro e di lavoro, sta a significare che la grande onda che ha aperto i confini tra paesi lontani, dando benzina alla crescita economica e sviluppando un nuovo ordine produttivo che ha coinvolto i paesi più periferici, si è ormai esaurita? Oppure tutto è solo il portato della caduta della domanda globale?

All'interrogativo non c'è una risposta univoca. Ma certo lo scenario che la grande crisi finanziaria sta lasciando intravedere sul fronte della globalizzazione è di grande cambiamento. Tanto da far dubitare che una ripresa economica possa da sola bastare a far tornare le cose come stavano prima. Questo almeno è il risultato dell'analisi sulla globalizzazione che fa il gruppo degli economisti della banca svizzera Ubs, intitolandolo “Separare il mito dalla realtà”.

E qual è la realtà? Intanto che il “prima” di ora è quella fase in cui il commercio si è mosso più velocemente della crescita del prodotto interno lordo. Il che non è accaduto solo in epoca recente, anzi: la prima fase della globalizzazione è avvenuta tra il 1870 e il 1914, grazie all'avvento dei trasporti a vapore, dell'apertura del canale di Suez, dei cavi sottomarini per le comunicazioni telegrafiche. La sterlina era la valuta dominante, e le banche inglesi le protagoniste degli scambi, che avvenivano soprattuto dal Sud al Nord del mondo, e a vantaggio esclusivo di quest'ultimo.

La seconda fase si è avuta dagli anni Cinquanta ai Settanta, grazie anche alla nascita delle tante organizzazioni internazionali (il Fmi, l'Onu, la Banca Mondiale) e agli accordi commerciali, come il Gatt. Ne è derivato il boom delle multinazionali, l'industrializzazione dei paesi della periferia, con gli scambi che crescevano al ritmo più forte di sempre in termini assoluti.

Ma valutandolo nel suo rapporto con la crescita economica complessiva, il commercio è cresciuto in maniera ancora più significativa nell'era dell'iper-globalizzazione degli anni '90 e Duemila. Quella in cui è stato decantato come la grande ricetta per la creazione di ricchezza e benessere per tutti. Non si era mai visto un simile scatenamento di fattori tutti nella stessa direzione: il movimento della forza lavoro, del capitale, e dei prodotti, come dopo la caduta del muro di Berlino.

Tutto questo, la globalizzazione e il suo mito, si è infranto con la crisi finanziaria. L'indice per misurare la frenata - dato appunto dal rapporto tra crescita del commercio e crescita del Pil – è crollato dal 2,2 degli anni Novanta a un rapporto inferiore a uno dal 2015. Il commercio insomma ha incominciato a procedere a una velocità inferiore a quella del Pil, cosa mai successa nell'ultimo quarto di secolo. Questo non vuol dire che il mondo sia meno globalizzato di prima, ma solo che il ritmo dell'apertura è più lento. E che il giocattolo forse si è rotto per sempre.

Ma chi ha sofferto di più e in quali settori?

La frenata ha interessato soprattutto i beni commerciali, molto di meno i servizi. E questo ha già prodotto una nuova disparità tra grandi aree economiche. Se i servizi continuano a tirare, in questo settore è il mondo sviluppato, il nostro, che fa la parte del leone: le economie emergenti esportano il 34 per cento dei servizi, e importano il 41 per cento del totale. Noi il resto. Nella misura in cui il commercio mondiale è sostenuto dai servizi, sono quindi i paesi avanzati ad averne il vantaggio maggiore. E non è soltanto il peso assoluto dei servizi sul commercio a contare, quando il valore aggiunto che sprigionano: i servizi pesano solo il 20 per cento, ma in termini di valore aggiunto valgono tra il 40 e il 50 per cento del totale. Ricchezza trattenuta da questa parte di mondo.

Se però guardiamo quello che accade nel paese che è il più grande importatore al mondo, gli Usa, l'effetto della frenata della globalizzazione non è così drammatico. Se rallentano gli Stati Uniti, si sa, è tutto il mondo a soffrire. Ebbene, gli Usa hanno effettivamente ridotto le loro importazioni dal resto del mondo, ma soprattutto quelle nel settore energia, per via della rivoluzione rappresentata dalla produzione domestica con la tecnica dello shale oil.

Per quanto riguarda invece il settore manifatturiero le importazioni hanno continuato a tirare. Con una grossa selezione settore per settore, certo. Per esempio, c'è stato un vero crollo di quelle di computer e dell'elettronica, con la produzione domestica in questo campo in netta ripresa. E con non poche modifiche nel comportamento nei consumi, sempre più avverso a prodotti import. Di fondo, però, il modello commerciale degli Usa con il resto del mondo non è cambiato.

Cambiato, e di molto, è invece quello dell'Europa. Il commercio mondiale dell'area è cresciuto, negli ultimi cinque anni, a un ritmo del 3,7 per cento contro il 3,3 degli Usa e il 3,5 dell'Asia. Insomma, è stata l'Europa a dare quel po' di stimolo che ha continuato a trainare il commercio mondiale. Ma quel che conta è che il rallentamento degli scambi che ha interessato il nostro continente è di diversa natura rispetto al fenomeno vissuto dagli Usa e anche dall'Asia. È infatti legato, sostiene Ubs, al rallentamento dell'economia in generale e del Pil, e questo alimenta la speranza che si possa rimettere in moto una volta ripartita la ripresa.

C'è però un dettaglio non secondario che dipinge il nuovo modello di scambi che si sta plasmando all'interno dell'Europa. Mentre l'Unione europea ha ridotto il suo interscambio con il resto del mondo, non altrettanto ha fatto l'area dell'euro, che ha continuato a importare con vigore. Ma da dove? Dall'Europa stessa, ma da quei paesi che non sono nell'euro, insomma dall'Europa periferica. In nome di quale vantaggio questo è accaduto? L'imperativo è stato operare un accorciamento della catena del valore, in pratica la tendenza a riportare più vicino a casa attività che una volta si svolgevano lontano, soprattutto in Asia. In conclusione, l'Europa si sta facendo sempre più autarchica.

Per i motivi detti finora (il peso dei servizi, l'”onshoring”), l'Asia non è messa benissimo, e le speranze che venga da lì lo slancio per la crescita sono mal riposte. Né c'è da attendersi molto dai giganti economici dell'aerea. Anche se ha conquistato una quota molto importante del commercio mondiale, la quota di scambi intra-asiatica è al palo, soprattutto per via del rallentamento della Cina. Che da grande importatore ha ridotto i suoi acquisti dal resto del mondo, e non c'è nessun altro in grado di rimpiazzarla. Almeno in tempi brevi.

Anche l'altro fattore determinante del grande rallentamento del commercio mondiale e della frenata della globalizzazione che è il crollo del movimento del denaro penalizza l'Asia. I flussi finanziari, dall'inizio della crisi, sono crollati in tutto il mondo del 60 per cento. E si tratta soprattutto di capitali che vengono dai paesi più avanzati, cioè Europa e Usa: prestiti bancari, finanziamenti al commercio, depositi e valute. Si sono tutti assottigliati o dileguati, e non solo quelli verso i paesi emergenti, ma soprattutto quelli tra le stesse banche e all'interno dell'Europa. L'unico fenomeno in controtendenza è quello che interessa il flusso degli investimenti. In cerca di rendimenti, in epoca di tassi zero, la vera globalizzazione ancora in crescita (soprattutto per Europa e Giappone) è quella dei capitali a caccia di buoni affari in giro per il mondo.

L'ultima notazione il rapporto Ubs lo riserva al fattore lavoro, l'altro grande protagonista della globalizzazione ormai alle nostre spalle. Dagli anni Novanta in poi il ritmo di crescita netta dello stock dei migranti ha mantenuto il ritmo di quasi il due per cento a livello mondiale. È poi diminuito all'interno dei paesi avanzati (dopo il boom dal '90 al 2010, quando è cresciuta del 3,2 per cento all'anno, la migrazione del lavoro nell'area sviluppata si è quasi fermata, scendendo dal 2010 al 2015 all'1,3 per cento), ma è continuato negli emergenti. Con destinazione soprattutto i paesi del Medio Oriente. E molto meno paesi come Usa, Gran Bretagna o Europa. Il che vuol dire, commentano gli analisti svizzeri, che l'effetto benefico sul rimescolamento globale del movimento degli uomini resta. Peccato che avvenga tra comunità in cui c'è già un eccesso di lavoro. Ma i paesi ricchi chiudono le porte. Chiudendo anche l'ultima esile speranza di tenere viva la parte migliore della globalizzazione che fu.