Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla ?P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura

Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare.

È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti.
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La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita.

L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio.

L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri.

«Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo».

Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico.

Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante.

La copertina dell'Espresso del 23 ottobre
I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa».

Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati.

Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone.

Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione.

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Un paese fondato sui dossier
23/10/2016
La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi.

Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso , il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione».

Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale.

«Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati.

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Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi».

Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove».

I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalentge in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione.

Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia.

Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza.

Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia.

Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati.

Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale».

Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto.

Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti.

Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata.

A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!».

La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.