Dall’America arriva uno shock profondo  e duraturo. E una cultura che promette soltanto soddisfazioni, mentre  non parla mai di doveri. Scuotendo il concetto stesso di Occidente.  Così una destra al cubo  è salita in cima al mondo. Senza una sinistra all’altezza della  sua storia

La forza aliena del trumpismo, rispetto allo schema liberale prudente e pragmatico delle democrazie occidentali, avrebbe cambiato le cose anche se Hillary Clinton avesse vinto, con la sua irruzione blasfema e vitale nella politica d’America. Ma oggi che Trump ha trionfato, quella forza si fa governo, si trasforma in istituzione, dà interpretazione e forma alla democrazia statunitense: diventa America. Dopo lo shock politico (immediato come lo spaesamento di un sistema che con tutte le sue antenne e i suoi meccanismi interpretativi non aveva saputo prevedere nulla) arriverà il momento del vero shock profondo e duraturo: quello culturale. Insieme con l’uomo che entra alla Casa Bianca senza aver mai avuto un incarico politico e militare - prima volta nella storia del Paese - va infatti al comando della più grande democrazia del nostro mondo una cultura del tutto nuova, che umilia la sinistra democratica, mette fuori gioco la tradizione repubblicana e annuncia una mutazione rispetto alla stessa forma istituzionale del potere americano a cui eravamo abituati da decenni.
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Alla base di tutto torna a esserci l’individuo, dopo le classi, le categorie, le generazioni, la società. In un thatcherismo tutto prassi e niente teoria l’individuo diventa il referente assoluto, il soggetto nelle cui mani è affidato il futuro, insieme protagonista e referente dell’avventura di questa presidenza. «Every single American», ogni singolo americano - ha detto Trump subito dopo l’elezione - avrà l’opportunità di realizzare fino in fondo il suo potenziale. Non un progetto comune, com’eravamo abituati nella retorica democratica e repubblicana, non un impegno collettivo: ma la garanzia che il presidente si occuperà di te, personalmente di te, che per troppi anni sei stato nell’ombra, dimenticato e trascurato, messo da parte, politicamente abbandonato. Sono i «forgotten men and women» a cui Trump nel suo primo discorso ha restituito l’onore della visibilità politica e sociale, della soggettività politica che avevano perduto.

Immediatamente dopo il saldo elettorale, avviene dunque il “pagamento” immateriale del debito aperto durante la campagna, come in ogni contratto che si rispetti, soprattutto in un Paese di etica protestante. Trump aveva fatto un patto implicito di riconoscimento reciproco e dunque di riscatto in un’alleanza revanchista con l’America profonda, quella delle persone “per bene” contro i liberal costieri senza Dio, quella dei piccoli centri contro le metropoli, quelli della campagna contro le lobby di Washington, quella dei cittadini contro gli apparati dei partiti. Ricevuto il voto e portata fino in fondo la spallata al sistema, il neopresidente chiede a quell’America dispersa di costituirsi in movimento, in gruppo di pressione. Non le propone di diventare un partito, e nemmeno di occupare il partito che già c’è, il Grand Old Party. Chiede di continuare ad aver fame di rivincita, di continuare a brontolare, di non smettere di ribellarsi.
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Si delinea così il primo impianto strategico dell’offerta politica trumpista. All’establishment, che non ha nemmeno citato, il presidente risponderà con la politica, dagli armamenti all’isolazionismo alla logica di potenza. Alla base, risponderà con l’antipolitica, la ribellione permanente, il malcontento che continua, indirizzato verso un’indistinta élite che oggi è il bersaglio di tutti i populismi. Una Casa Bianca peronista, di lotta e di governo, dopo gli esperimenti populisti che l’Europa aveva testato su se stessa a cavallo del secolo, semplificazioni del meccanismo democratico, personalizzazione della leadership, insofferenza per i controlli politici, di legalità, di costituzionalità, parlamentari.

Per riuscire Trump deve svuotare compiutamente le due culture politiche di riferimento della storia americana. I democratici sono già annichiliti da una sconfitta che colpisce insieme un’ex Segretaria di Stato ed ex First Lady, una dinastia presidenziale, l’attuale inquilino della Casa Bianca che nella campagna ha giocato molto del suo prestigio, tanto più quando la candidata traballava. I repubblicani sono vincitori grazie a un Papa straniero che ha occupato casa loro sfrattandoli, e li ha riportati al comando dell’amministrazione e del Congresso trasformando però il partito in un guscio vuoto, riempito con l’istinto selvaggio che ha preso il posto di una tradizione conservatrice, con un linguaggio che ha sconvolto ogni regola moderata. Si potrebbe dire che in un gioco al rialzo - o meglio al ribasso - la destra ha soppiantato la sinistra di governo: ma una destra aliena ha preso il posto della destra che gli americani e il mondo conoscevano da sempre, trasformando la nuova America in un’incognita.

Avevamo infatti conosciuto molte destre, nella storia di quel Paese: prima l’impianto religioso e l’aristocrazia dell’istruzione, delle professioni e del denaro, poi il fondamentalismo coniugato con il rifiuto del comunismo e la sua paura, quindi il timore dell’antiamericanismo e degli “aliens”, poi il tradizionalismo, spesso il complottismo. Oggi il populismo che riprende pulsioni antiche in forme nuovissime e le coniuga con l’“anti-elitismo” della New Right, amplificato dallo sfondamento del discorso politico, deformato nella sua forma e nella sua sostanza dal politicamente scorretto trasformato in codice identitario, in rottura del conformismo, addirittura in garanzia di autenticità. Ma Ronald Reagan, il campione di quel mondo, era dentro una cornice culturale comune, riconoscibile e riconosciuta, quando nel discorso di insediamento del gennaio ’81 rivendicava «il diritto di fare sogni eroici», di ritrovare «la nostra fede e la nostra speranza», quando raccontava al suo biografo che la sua più grande qualità era «la capacità di conciliare», quando nel 1976, battuto da Ford, invitò addirittura i suoi a «non diventare cinici, perché ci sono qui fuori milioni di americani che vogliono che ci sia una città radiosa sulla collina».

Quella cornice culturale comune, in politica, si chiama responsabilità, non a caso la parola più usata - e con più forza - da Barack Obama nel suo primo discorso d’insediamento. È quella cornice che oggi si è rotta, perché il populismo, promettendo l’impossibile, pratica una cultura irresponsabile che annuncia soltanto soddisfazioni, che non parla mai di doveri, che lusinga il popolo annunciandogli perennemente una rivincita e assicurandogli una presa diretta sul potere, mentre in realtà gli chiede una vibrazione perenne di consenso, e una delega periodica fissa. Tutto questo comporta un esperimento oltremodo arrischiato per una democrazia: tenere una massa di cittadini elettori sul bordo del sistema, con un piede dentro e uno fuori perché rimangano estranei ai partiti tradizionali e alle istituzioni e non conoscano la strada di ritorno nelle culture politiche classiche di riferimento.

È una formula pericolosa per la democrazia, fruttuosa per un leader di opposizione, o per un campaigner. Quando il grande outsider va al potere, le cose si complicano, perché è molto difficile interpretare il mainstream con il linguaggio della contestazione, guidare il Paese e insieme bruciare le élite. Tuttavia, e paradossalmente, lo sganghero istituzionale di Trump ha riportato in politica ceti e gruppi sociali, solitudini repubblicane e secessioni democratiche che la politica stessa non riusciva più a raggiungere. Come se l’estrema destra americana, nel suo populismo vittorioso, fosse capace di un’inclusione che la sinistra non riesce più a garantire, pur essendo nata per questo.

Ecco perché il trumpismo metterà in crisi le forme politiche tradizionali e le classiche culture di riferimento. Fino ad arrivare a scuotere il concetto stesso di Occidente. Il nuovo presidente lo farà direttamente, attraverso la politica, il restringimento della Nato, l’amicizia con Putin, il rapporto con Farage, Orbán e Le Pen. Ma più ancora agiranno le culture, e più nel profondo. Nella più grande democrazia del mondo va al potere un uomo che finora ha dimostrato di ignorare il concetto stesso di Occidente, ciò che noi siamo, la terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti. Qualcosa che nasce dalla fede comune nella libertà, nei diritti dell’uomo, nello Stato di diritto, nel governo dei conflitti. Se le forme della democrazia politica e istituzionale, le sue fondamenta culturali vengono messe in discussione, anche l’Occidente si risolverà in un guscio vuoto, riducendosi a puro Ovest, mera espressione geografica, sopravvivenza della guerra fredda in contrapposizione a un “nemico ereditario”, la Russia, che promette intanto di diventare il primo amico di Trump in un rovesciamento dei mondi.

Rischiamo dunque di rimanere senza identità politico-culturale, spogli. Come se le basi culturali e le loro proiezioni non fossero la sostanza e la forza della politica, dei Paesi, delle avventure comuni. Come se tutto fosse prassi e improvvisazione, e la politica pura rappresentazione invece che rappresentanza. Come se non contassero nulla le strutture d’opinione consolidate nel tempo e nella storia. Un terreno senza radici e senza alcun deposito di senso, privato di ogni deposito culturale e dunque di ogni significato. Ideale per il populismo, e a questo punto si capisce perché sfonda e vince.