Edward Snowden e quel perdono negato da Barack Obama
Con l'arrivo nelle sale del film di Oliver Stone si riapre il dibattito sulla sorte del whistleblower che ha svelato il programma di monitoraggio della Nsa. Condannato a una vita da eterno fuggitivo, che il presidente uscente potrebbe far cessare. Abbiamo ricostruito i dettagli della storia parlandone con i protagonisti
La campagna ha fatto il giro del mondo, raccogliendo sponsor di prima grandezza: da Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web, a Daniel Ellsberg, il whistleblower che ha fatto filtrare i "Pentagon Papers", i documenti top secret sulla guerra in Vietnam. Da un'icona dell'impegno politico, come Susan Sarandon, al musicista Peter Gabriel. Tanti intellettuali, giornalisti, persone comuni e vip chiedono a Barack Obama di perdonare Edward Snowden prima della fine del suo mandato presidenziale. E ormai il tempo sta per scadere: Obama ha poche settimane per decidere se perdonarlo o abbandonarlo al suo destino.
Che fine farà Snowden? Che cosa riserva esattamente il destino all'ex contractor della più tecnologicamente avanzata agenzia di intelligence del mondo, la Nsa, nessuno lo sa. L'unica cosa certa nella vita di Snowden è l'incriminazione ai sensi dell' "Espionage Act", una legge americana del 1917 pensata per punire i traditori della Prima guerra mondiale che passavano documenti segreti al nemico. E poco importa che Snowden non sia un traditore, ma sia invece un whistleblower: qualcuno che si è preso il rischio di denunciare nel pubblico interesse, consegnando documenti top secret della Nsa ai giornalisti indipendenti Glenn Greenwald e Laura Poitras che li hanno pubblicati e condivisi con i media di tutto il mondo, tra cui il nostro giornale. Snowden rimane un ricercato e, se mai la Nsa e la Cia riusciranno a mettere le mani su di lui, finirà nella migliore delle ipotesi nelle prigioni Usa di massima sicurezza. Oggi l'unica protezione su cui può contare è uno "scudo" fragilissimo: un permesso di residenza temporanea in Russia che scadrà nell'agosto del 2017. E dopo?
A l'Espresso, il suo avvocato americano, Ben Wizner, che dirige la sezione sulla libertà di espressione, la privacy e la tecnologia della più importante organizzazione americana per la difesa dei diritti civili, l'American Civil Liberties Union (Aclu), spiega perché, con Obama al tramonto, il perdono presidenziale è di vitale importanza: «L'elezione di Donald Trump ha solo rafforzato la fondatezza della nostra richiesta», ci dice Wizner, «Quando Edward Snowden si è presentato al mondo per la prima volta, nel 2013, ci ha messo in guardia dal rischio che questo apparato della sorveglianza, costruito in gran segreto, potesse un giorno finire nelle mani di un leader che non avesse rispetto per le regole della democrazia. Per fortuna, molte persone hanno prestato attenzione a questo avvertimento e, da allora, negli Stati Uniti abbiamo avuto delle riforme legali e tecnologiche che ci preparano meglio a quello che potrebbe accadere in futuro. E molti americani ora sperano che avremo più whistleblower nell'era di Trump, non meno. Il modo per incoraggiarli è riconoscere il contributo che Snowden ha dato, e non punirlo duramente».
[[ge:espressosite:espresso:1.238970:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.238970.1447488501!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]] Perché Obama non lo perdonerà. Ma il punto che solleva Ben Wizner è proprio il nodo della questione: l'effetto di incoraggiamento su altri possibili e futuri whistleblower che deriverà da un eventuale perdono presidenziale concesso a Snowden. Il governo Usa è terrorizzato che una linea morbida possa dare la stura a decine, se non centinaia, di dipendenti e contractor di quello strapotente complesso militare-industriale, che ne conoscono dall'interno abusi, crimini e corruzioni e che potrebbero essere spinti a denunciare nel pubblico interesse, facendo uscire informazioni riservate.
Negli Stati Uniti, ci sono oltre quattro milioni di persone che hanno accesso a documenti governativi classificati "secret", "top secret" e oltre il top secret. La paura dell'effetto domino è l'incubo che ha guidato la guerra di Obama ai whistleblower. Il presidente liberal, infatti, si è ritrovato a dover gestire un'ondata di dissenso in gran parte ereditata dagli abusi di George W. Bush nella guerra al terrorismo, e che ha portato insider come Edward Snowden, Chelsea Manning, Thomas Drake, Bill Binney, John Kiriakou a denunciare pubblicamente torture, corruzioni, sorveglianza di massa, crimini di guerra, violazioni sistematiche della Costituzione. Scoperchiato da chi lo conosce dall'interno, il complesso militare e d'intelligence Usa è apparso in tutta la sua problematicità. La risposta di Obama a queste denunce, purtroppo, è stata di durezza esemplare: ha incriminato con l'Espionage Act ben otto whistleblower, più di tutti gli altri presidenti Usa messi insieme. Un record e, probabilmente, un'eredità pesante.
Con Chelsea Manning, il desiderio dell'amministrazione Obama di fare della giovane fonte di WikiLeaks un caso di esempio per tutti ha raggiunto l'apice: processata davanti alla corte marziale, è stata condannata a trentacinque anni di prigione militare. La sentenza più lunga di sempre, per aver rivelato informazioni riservate alla stampa. E i primi nove mesi di detenzione sono state definite dallo Special Rapporteur dell'Onu sulla tortura, Juan Mendez, inumane. A luglio scorso, Chelsea ha provato a suicidarsi. Ad ottobre, ci ha provato di nuovo. Il rischio è che prima o poi ci riesca. Anche per lei, come per Snowden, è partita una campagna per il perdono presidenziale, ma come per l'ex contractor della Nsa, questo appare solo un miraggio.
La legge non è uguale per tutti. Se per i whistleblower c'è l'inferno, senza speranza di perdono, per i potenti che, per vanità o interesse personale, hanno rivelato informazioni segrete pubblicate sistematicamente sui grandi giornali Usa o finite nei film di Hollywood, non c'è carcere né punizione esemplare. E così per il generale David Petraeus, che ha fornito all'amante Paula Brodwell l'accesso a note delicatissime, contenenti le identità sotto copertura di agenti segreti e informazioni classificate su strategie militari e segreti diplomatici, non c'è stato un giorno di galera. Se l'è cavata con una multa di 40mila dollari.
Leon Panetta, l'ex capo della Cia che ha dato una mano alla realizzazione del film "Zero Dark Thirty" sul raid che portò all'eliminazione di Osama Bin Laden, idem: si gode la sua pensione in California. E poco importa che al team di Zero Dark Thiry abbia permesso di accedere a informazioni "Secret/noforn", lo stesso livello di segretezza di molti dei cablo della diplomazia Usa passati da Chelsea Manning a WikiLeaks e poi pubblicati dall'organizzazione di Assange.
E le rivelazioni top secret sulla cyber arma "Stuxnet", con cui gli Usa e Israele avrebbero danneggiato seriamente il programma nucleare iraniano? Pubblicate dal New York Times nel 2012, non hanno causato alcun danno serio alla fonte di altissimo livello del Times, il generale James Cartwright.
Insomma, la differenza di trattamento è schiacciante. Julian Assange ha descritto così la situazione in un'intervista al nostro giornale: «Ormai non si fa manco più finta che la legge sia uguale per tutti. Dianne Feinstein, il capo del Comitato del Senato americano sull'intelligence, dichiara continuamente che io andrei processato per spionaggio e spinge affinché ciò accada. Allo stesso tempo, ha anche detto che il generale Petraeus e la sua famiglia hanno sofferto abbastanza, visto che Petraues ha perso il proprio lavoro. Si tratta di un notevole doppiopesismo. Dimostra come loro non debbano rendere conto a nessuno. Ed è parte del loro calcolo di arrivare al potere per proiettare il potere: uno dei modi per proiettare potere è dimostrare di non dover rendere conto a nessuno: siamo intoccabili, e quindi non vi azzardate a toccarci. Questa è una delle ragioni per cui hanno perseguitato duramente WikiLeaks, Snowden e Manning, perché li abbiamo colpiti duramente, facendoli apparire molto deboli».
Dunque il gioco ormai è fatto, e non c'è nulla da aspettarsi da Obama? L'avvocata americana Jesselyn Radack, che assiste whistleblower di altissimo profilo come Thomas Drake e Bill Binney, che prima di Snowden hanno denunciato gli abusi della Nsa, valuta che «Il presidente Obama, probabilmente, non perdonerà Snowden, perché dovrebbe rimangiarsi troppe dichiarazioni», dice a l'Espresso Radack, che continua: «Avendo assunto una posizione dura contro Snowden, c'è poco margine per la flessibilità... e se la situazione dovesse farsi più elastica, sarà necessaria qualche forma di scambio. Noi rimaniamo ottimisti che un perdono possa ancora esserci».
Thomas Drake, invece, di ottimismo ne ha ben poco: «Obama è "preda" e allo stesso tempo è grato all'establishment dell'intelligence, che agisce nelle profondità dello Stato», ci spiega, «[Il presidente, ndr] ha chiaramente un grande risentimento nei confronti dei whistleblower che si sono azzardati a mettere in discussione e a rivelare informazioni nel pubblico interesse sul potere, sulla presidenza e sull'esecutivo». Secondo Drake, Edward Snowden ha fatto anche apparire «in una cattiva luce [Obama, ndr], perché le sue rivelazioni hanno fatto emergere l'ipocrisia della sua stessa amministrazione», dice l'ex dirigente della Nsa, riferendosi alla scelta del presidente democratico di rendere legali i programmi di sorveglianza di massa che l'amministrazione repubblicana di George W. Bush ha introdotto dopo l'11 settembre in modo completamente illegale.
Chi non molla la presa è la sinistra tedesca: «Non ci daremo per vinti», ci dice la parlamentare di "Die Linke", Martina Renner, che spiega: «Spero che il governo tedesco renda possibile a Snowden di venire in Germania: noi vogliamo raccogliere la sua testimonianza sulla sorveglianza di massa contro il popolo tedesco». I file di Edward Snowden, infatti, hanno permesso al Bundestag di Berlino di aprire una commissione di inchiesta sulle attività della Nsa in Germania: grazie a parlamentari come Renner e a una stampa attenta al tema, i lavori vanno avanti con determinazione prussiana. Una situazione profondamente diversa dall'Italia, in cui il dibattito è morto: dopo le nostre rivelazioni sulla sorveglianza Nsa ai danni del nostro Paese e di figure apicali del suo governo, come Silvio Berlusconi, silenzio e apatia sono state le uniche reazioni al caso, e l'inchiesta della procura di Roma, annunciata in pompa magna, non risulta pervenuta.
Sarah Harrison: Edward Snowden e io, rinchiusi nell'aeroporto a sperare nell'Europa. Chi può offrire un contributo speciale in questo dibattito è Sarah Harrison, la giornalista di WikiLeaks che nel 2013 Julian Assange inviò a Hong Kong per aiutare Snowden a cercare asilo e che volò con lui in Russia, rimanendo entrambi bloccati per 39 giorni nell'aeroporto Sheremetyevo di Mosca. Parlando a nome della "Courage Foundation", una fondazione con sede a Berlino creata proprio per assistere i whistleblower di alto profilo, Harrison dice a l'Espresso: «Il presidente Obama ha un'opportunità unica di fare la cosa giusta prima di lasciare la Casa Bianca: perdonare Edward Snowden e Chelsea Manning e fermare l'indagine segreta del Grand Jury contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange».
Harrison racconta di avere «un ricordo vivido dei giorni passati con Ed, reclusi in aeroporto a Mosca, mentre cercavamo di inviare le sue richieste di asilo a quasi trenta paesi di tutto il mondo. Nessuno stato europeo offrì asilo. Fu una lezione importante: con tutta la loro retorica sulla libertà di stampa e di parola, le democrazie europee non hanno fatto assolutamente nulla per lui, mentre hanno permesso alla Russia di Putin di fare la cosa giusta. E' stata una scelta sia sbagliata sia poco intelligente. Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange, hanno rivelato informazioni nel pubblico interesse, lavorando nella grande tradizione degli Stati Uniti della stampa libera. Perseguitarli e allo stesso tempo tollerare gli eccessi di secretazione dei documenti e le cosiddette "fughe di notizie autorizzate" da parte di ufficiali del governo, che sistematicamente finiscono pubblicate sul New York Times o sul Washington Post, logorerà le nostre democrazie».