Il regista racconta il nuovo film ispirato dal libro di Massimo Gramellini
«Massimo Gramellini? È stato molto discreto. Ha letto il copione ma non è mai intervenuto nella lavorazione del film. Una sola volta ci ha raggiunto sul set di “Fai bei sogni”. Con ossessione filologica avevamo ricostruito in studio l’appartamento della sua infanzia: corridoio, stanza da pranzo, camera da letto… Ambienti identici a quelli della casa dov’era cresciuto a Torino. Lui visibilmente turbato scrisse poi un post sul suo blog. Ci furono diecimila commenti e molti dei diecimila a ripetere la stessa frase: “Speriamo che Bellocchio non ci rovini il tuo libro”». Ride Marco Bellocchio, lo diverte la scarsa fiducia che ripongono ?in lui i fan di Gramellini. Un vero esercito che lo aspetta al varco ?il prossimo 10 novembre, quando il film, dopo la presentazione ?al Festival di Cannes, sarà finalmente nelle sale italiane, sotto il giudizio dei lettori che han permesso a quel commovente romanzo autobiografico di vendere più di un milione di copie, restare per oltre cinquanta settimane in testa alle classiche, vantare ben ?24 ristampe e diventare un caso editoriale.
La storia è nota ai più. Racconto della morte misteriosa di una madre che lascia orfano un bambino molto amato. Ma anche storia di un padre anaffettivo e rigido, di un’omertà familiare, di un bambino divenuto un adulto malinconico (lo interpreta Valerio Mastandrea), emotivamente irrisolto, in preda a rimozioni, vittima di crisi di panico e soprattutto incapace di vedere la verità nascosta dietro a quella improvvisa scomparsa.
Col cuore in mano Gramellini scrive un libro carico di sentimenti e di buoni sentimenti. Marco Bellocchio fa invece un film sulla morte e sul rapporto con la morte come sempre dialetticamente teso fra una visione lucidamente laica e una consolazione cattolica. Teso e inevitabilmente irrisolto, come impossibile è risolvere la prematura perdita di una madre se non come tragedia congelata nel tempo. «Alla mia età», ha detto, «si gira ogni film con il retro-pensiero che potrebbe essere l’ultimo. Non mi dispiacerebbe se il mio ultimo film fosse una storia come questa». Però “Fai bei sogni” non sarà l’ultimo film: Bellocchio è già al lavoro su un progetto ispirato alla vita del pentito Buscetta. E soprattutto “Fai bei sogni” è un film “alla Bellocchio”, dove la morte è catalizzatore di umani sentimenti e lo spazio di una casa di media borghesia diventa la scena primaria e universale del rapporto madre-figlio. Un film che vive di vita propria, al di là del libro. Con buona pace dei fan di Gramellini.
L’aspettano al varco, Bellocchio, i lettori fedeli, nonostante lei abbia detto e scritto che il film è “liberamente tratto” dal libro: ma quanto liberamente? «Ho fatto un film con notevole libertà. Ho chiamato a lavorare alla sceneggiatura insieme a me e Valia Santella uno scrittore lontanissimo da Gramellini: Edoardo Albinati. E non penso che sia davvero necessario aver letto il libro per vedere questo film, come non dovrebbe essere mai necessario, anche se si gira “Guerra e Pace”. Sinceramente non avevo letto il libro, è stato il produttore Beppe Caschetto a suggerirmelo. E mi ha colpito l’infelicità ?di quest’uomo, la sua forzata freddezza, la sua paura legata ?al trauma iniziale della vita, ma soprattutto la sua verità. A monte ?di questa storia e di questo successo, non dimentichiamolo, ?c’è una reale tragedia. È questo che mi ha convinto».
Molti invece dopo la proiezione a Cannes sono stati colpiti da un’analogia con i “Pugni in tasca”, il suo film rivelazione del 1965. La casa, la madre che muore, lì odiata qui amata. Un’alfa-omega, un opposto simmetrico…. «È una domanda che mi sono posto io stesso. Là c’è chi uccide una mamma anaffettiva da cui vorrebbe essere amato, mentre lei non ?è in grado di farlo per una serie di disgrazie che l’hanno colpita. E quella è un po’ la storia della mia vita. Qui c’è un bambino troppo amato che perde paurosamente sua madre, una tensione sul potere dei sentimenti o su una loro verità che è difficile da decifrare a livello tematico. Ed anche questa è una storia vera. In entrambi casi ?la perdita di una madre, non aver avuto ciò che volevi da lei apre la strada alla nevrosi che evolve in maniera diversa, fino alla psicosi. Ma, ciò detto, fra i due film ci sono cinquant’anni di vita e di cinema, una padronanza del mezzo che allora non avevo. E anche ?un diverso rapporto con la morte».
Intende dire con la morte come dispositivo narrativo? «Non solo. In un momento della mia vita che nel suo complesso comincia a prevedere la sua conclusione, il tema della morte mi porta a riflessioni più approfondite, diventa parte integrante della materia d’ispirazione. Forse gli artisti più di altri sentono il bisogno di dar forma a un appuntamento a cui nessuno può sfuggire, anche per esorcizzare la paura di questo evento inevitabile che mi sottrarrà l’unica cosa che ho: la mia vita. In quanto laico io vivo solo della mia vita terrena e invidio coloro che credono in quella ultraterrena».
Qui il laico però è il bambino che non accetta la visione benevola di una mamma che lo protegge dal cielo e si batte contro le ragioni del parroco sempliciotto o di un più colto e filosofico sacerdote interpretato da Roberto Herlitzka. Un conflitto tra logica e fede che ritroviamo spesso nei suoi film.
«È la tesi di un mio amico sacerdote: “Tu sei in bilico”, mi dice sempre. E tende a riconoscere nei miei passi o movimenti una specie di bagliore della fede, come se inconsciamente avessi delle aperture. Ma in realtà quel che mi attrae è un modo di ragionare del credente che riassumo nelle parole di Herlitzka quando dice al protagonista che lo interroga sull’esistenza di Dio: “Ci deve essere un Dio”. Non dice che Dio “c’è”, ma che “deve esserci”, altrimenti il mondo perde di senso».
È sicuro che non abbia ragione il suo amico sacerdote? «Le assicuro che il salto nella fede come follia non sento di averlo ancora fatto (e ride, ndr)».
Comunque nel film i sacerdoti son più simpatici dei giornalisti. Del resto lei a Cannes ha dichiarato che «bisognerebbe fare un film sugli estremismi di questo tragico mestiere, sulla sua dimensione disumana, sulla superficialità necessaria ad afferrare il presente e sintetizzarlo». «C’è una dimensione tragica nel mestiere di giornalista che ti impedisce di andare oltre, di svelare certe verità o complessità perché l’attualità ti obbliga a sintetizzare e comprimere tutto. Ancora di più adesso che il tempo si riduce e anche il testo si fa sempre più breve. È in questo clima che il protagonista vive ?il peso di tutte le sue contraddizioni».
Come trasformare il trauma della morte della madre in un articolo o un libro di successo, carico di sentimentalismo? In alcuni tratti del film si sente anche un filo di polemica. Per esempio nell’acidità del vecchio giornalista che dice a Massimo: «A te ?il libro “Cuore” ti fa una pippa». «Ci sono dei punti in cui accolgo la contestazione che insieme al grande amore c’è stata intorno a questa operazione letteraria. Ma più che nel vecchio giornalista mi riconosco nella durezza di quelle cinque parole pronunciate da Piera Degli Esposti, vecchia madre arida che dopo aver letto l’articolo di Massimo dice al figlio: “E ora cosa dovremmo fare: abbracciarci?”. Sono sconnessioni necessarie se si vuole trasferire uno stile letterario in linguaggio cinematografico che ha bisogno di un certo tipo di secchezza o sobrietà. Ma non c’è nessuna volontà polemica di denunciare una certa oggettiva e quasi inevitabile superficialità del giornalismo».
Ma il confronto con un libro di tale successo non la spaventa? O anche lei ha ceduto alla tentazione di essere più popolare? «So che la libertà di un regista è legata al successo dei suoi film ma non è per questo che ho girato “Fai bei sogni”. Ripeto che ?ho lavorato in totale libertà: non c’è una sola scena piegata all’illustrazione del romanzo. Ho voluto indagare e raccontare una storia vera che ha inizio e fine nella morte di una madre. Al di là ?del libro è un mio film. Giudicatelo come volete».