Il dibattito resta aperto sino all'attuazione del prossimo gennaio. Ma per il momento la nuova normativa mette d'accordo destra e sinistra. Dai finanziamenti spostati dall'opera all'impresa che la realizza, agli incentivi che premiano gli incassi, ecco cosa prevede
Vista da destra è una buona legge. E vista da sinistra, in fondo pure. Approvata il 3 novembre con 281 voti a favori e 97 contrari (il resto si astenne) la nuova legge sul cinema ha messo tutti d’accordo su un punto: finalmente si è recepito che il cinema è diverso da un circo e da un ente lirico. Non somiglia neanche al teatro tanto meno agli artisti di strada e a ben guardare sta stretto persino nella categoria “spettacolo”. Il cinema è un’industria. E in quanto tale ha bisogno di una normativa tutta sua.
Così in una sala dell’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive) piena di giornalisti chiamati ad aggiornarsi sulla professione, grazie al Sindacato Giornalisti Cinematografici si è svolto qualcosa di un più di un corso. Una complessa discussione su una legge che cambierà (in meglio si spera) la stessa definizione di film.
Cosa che nella realtà è già avvenuta per conto suo e in gran fretta. Tanto da render difficile al legislatore chiudere quei materiali che sfuggono come gelatina alla parola film, non essendo più pellicola, né oggetti da proiettare in sala ma immagini che scivolano su tablet e computer manipolati da nuovi burattinai chiamati Netflix o You Tube.
Da qui una legge di sistema che unisce cinema e audiovisivo associando per la prima volta film e tv, produttori di tradizione e broadcast, serie e documentari.
«Vi chiedete perché proprio io sono stato scelto come presidente dell’Anica?» dice Francesco Rutelli nel saluto di rito anticipando la domanda di chi perplesso non capisce come un curriculum politico porti a rappresentare i produttori italiani. «Beh me lo sono chiesto anch’io. Ma l’ho capito vedendo i 23 decreti attuativi che bisognerà redigere per rendere attiva la legge». Da qui l’idea di eleggere un uomo di lungo corso politico che parli ai politici.
Già perché per ora è chiara l’intenzione ma non perfettamente l’azione. E’ chiaro che il finanziamento si sposta dall’opera all’impresa che la realizza. Che all’assistenzialismo e al contributo diretto viene sostituito un contributo indiretto soprattutto sotto forma di incentivi fiscali. Si sa che 400 milioni di euro annui saranno la base del finanziamento (il 60% in più dell’attuale). Si sa che per un virtuoso meccanismo di contributi automatici saranno premiate le imprese dai maggiori risultati economici, culturali e artistici e si sa che la percentuale di tanto finanziamento dedicata alla ricerca, alle opere prime e seconde, ai giovani autori senza produttore e alle micro-imprese di comuni sotto i 15mila abitanti ( i cosiddetti “selettivi”) cresce dall’8 al 15- 18 %.
E poi sanno altre cose: sarà abolita la censura e sostituita da una sorta di autocertificazione dei produttori (con controllo del Ministero che multa se però bluffano); gli autori acquistano maggiori diritti perché per accedere ai finanziamenti le imprese dovranno portare quietanza dei bonifici a favore di sceneggiatori ( traduzione: finalmente la certezza della paga). Ci saranno agevolazioni per ristrutturazione delle piccole sale cittadine ( che rischiano l’estinzione) e per una maggiore diffusione del cinema nelle scuole.
E fino qui tutto bene. I dubbi vengono quando dal generale si passa al particolare. Che vuol dire premiare le imprese che realizzano maggiori risultati economici, culturali e artistici? Il primo punto è facile: si conta l’incasso. Ma i correttivi culturali e artistici? Chi li valuta? Come si quantificano?
Per Riccardo Tozzi basterebbe contare i premi e la partecipazione a festival internazionali per certificare insieme agli incassi la salute dell’impresa virtuosa. Per altri la legge è troppo sbilanciata nel favorire i produttori e l’industria trascurando la protezione di cineasti meno omogenei al sistema. Per Francesco Bruni dei “Cento autori” si rischia di uccidere qualsiasi opera che sfugga al mainstrem anche festivaliero.
«Il “selettivo” » ci dice «non è la riserva indiana ma quell’allevamento di autori dove son nati anche Garrone Sorrentino o Alice Rohrwacher. E’ quel settore che l’impresa chiama ricerca e produzione di prototipi da cui scaturiscono poi i i prodotti di serie di successo».
La discussione si accende. Qualcuno ( leggi Anac associazione autori esclusivamente cinematografici a differenza dei 100) fa i suoi conti. Quel il 15 % destinato al selettivo nella realtà è molto di meno poiché su questa capitolo di spesa gravano anche i finanziamenti alla Biennale, al Centro sperimentale, al Museo del Cinema etc… insomma spolpato di qua e di là e cifre alla mano si torna ll 8 % della vecchia legge (se va bene).
Anche ai 100 autori non convince per niente l’idea che gli incentivi premino sopratutto gli incassi ( visto che la cultura e l’arte son difficili da pesare). E mentre il produttore Riccardo Tozzi cita addirittura Togliatti accusando di “Romanticismo antindustriale” chi fa pulci a questa legge, c’è che si perde in tecnicismi sul tax credit e chi invece come la presidente di Cartoon Italia si sente per la prima volta rappresentata e ne è talmente felice da aver prodotto ad uso degli astanti un filmico riassunto dei benefici che potranno ricadere sul mondo dell’animazione italiano. Con tanto di augurale Minion che saluta tutti promettendo di venir a produrre in Italia.
Prossima puntata: gennaio 2017 quando la legge, decreti attuativi permettendo, dovrebbe diventare realtà. Il dibattito è aperto.