Il mercato ci offre un cocktail ?di dipendenze e desideri che ingurgitiamo con avidità. Ci piace, anzi è come se ci iniettassimo qualcosa che viene da noi stessi. In un circuito di eccitazione ?e frustrazione

Di cosa ci facciamo per vivere, sentirci meglio, per godere? Quali sostanze assumiamo per essere sani, potenti, maschi, femmine, meno fragili, più desiderabili, più felici?

Anfetamine, antibiotici, morfina, botox, silicone, pillole anticoncezionali, viagra, estrogeni, sostanze che il mercato prescrive o che noi stessi ci auto-prescriviamo dipendenti ciascuno dal proprio additivo, dal proprio appetito sintetico e tecnologico, dal proprio pharmakos, rimedio e veleno insieme, contro il male di vivere.
«Ciò a cui aspiro è convincervi che voi siete come me», dice la filosofa, anzi, il filosofo Paul B. Preciado, «tentati dalla stessa deriva chimica. La portate dentro: vi credete bio-donne ma prendete la pillola, bio-uomini ma prendete Viagra, siete normali e prendete Prozac e Seroxat nella speranza che qualcosa vi liberi dal tedio della vita; vi fate di cortisone, di coca, di Ritalin, di codeina… Voi, anche voi, siete il mostro che il testosterone risveglia in me».

Lei, anzi lui, si fa ogni giorno di testosterone sintetico, si spalma 50 milligrammi di Testogel sulle spalle, fa passare dalla pelle al sangue alle terminazioni nervose la sua dose di maschilità. Nell’era delle tecnologie gelatinose, iniettabili, incorporabili, lo fa non per diventare uomo ma per fare suo il corpo di un altro, per fare di sé qualcosa che non rientri in un codice deciso da quella che lui stesso chiama l’ecologia politica farmacopornografica con tutti i suoi cliché: sei bio-donna, il tuo codice semiotico-tecnico è quello della femminilità.

È il mercato di una nuova economia che dipende dalla produzione di tonnellate di steroidi sintetici e da organi tecnologici, dalla diffusione globale di immagini pornografiche, dalla elaborazione e circolazione di nuove varietà di sostanze psicotropiche sintetiche legali e illegali. Un mercato che mischia e combina farmaci e pornografia. Un cocktail di dipendenza e desiderio che ingurgitiamo con avidità. Ci piace, anzi, è come se ci facessimo di qualcosa che viene da noi stessi, fatti come siamo di dipendenza e desiderio.

Pensiamo al sesso, non è forse oscillante tra queste due condizioni? Passiamo dall’esaltazione all’abbattimento, dentro il circuito chiuso, economicamente perfetto, dell’eccitazione frustrazione eccitazione, cui ogni sistema di produzione obbedisce, compreso quello culturale, con le stesse modalità di spettacolarizzazione, promozione audio-visiva, riproducibilità tecnica. La pornografia mette in scena la sessualità per quello che è, performance, prestazione, ripetizione regolata, rappresentazione. Il motore della produzione farmacopornografica è l’eccitazione, la domanda di erezione, l’eiaculazione. Il prodotto non è un oggetto ma il soggetto stesso col suo sesso, il suo genere, la sua sessualità. Tutto quello che pensiamo privato, il nostro corpo, la nostra dimensione domestica, è dentro un sistema di controllo, di regolazione tecno-politica.

Serotonina, testosterone, psicostimolanti, insulina, citrato di sildenafil (viagra): è una molecola a darci forma, a configurarci dall’interno. Un neurotrasmettitore modifica il nostro modo di percepire e agire, un ormone ci toglie o ci aumenta la fame, il sonno, l’eccitazione sessuale, l’aggressività, la mascolinità, ci rende fertili o sterili tra estrogeni e progesterone in età riproduttiva e antidepressivi in menopausa. La sostanza si prende il nostro corpo, ne cambia la forma, ne assume la natura, e la controlla. Si fa corpo e quindi soggettività. E allora perché cambiare umore quando si può cambiare identità?

Sembra che il nostro sistema sociale fatichi a inventarsi nuove forme del convivere come individui, come soggetti desideranti, e che l’eterosessualità «sia un concetto economico, servito finora all’economia domestica del mondo».

Cammino per strada e vedo tutti, compresa me, corpi anonimi con le loro maschilità e femminilità, «caricature che, grazie a una tacita convenzione, non paiono coscienti di esserlo, finzioni performative e somatiche», scrive Preciado. Sembra che siamo ancora inseriti nelle due caselle maschio femmina, maschile femminile, che il nostro essere al mondo sia un fenomeno sociale, economico, politico, a partire dal sesso, dal genere, da una identità che è tale per come ci viene assegnata, come se fosse inevitabile, obbligatorio, naturale. Sembriamo vittime consapevoli e compiaciute della storia, della cultura, dei poteri più o meno forti che ci ostiniamo a rispettare, e che condizionano le nostre vite quando abbiamo a che fare con la perdita, l’esaltazione, il desiderio, il fallimento, l’amore e il lutto, quando proviamo passioni, e ci facciamo di qualunque cosa per negarle o vincolarle a una qualche fisica e mentale manifestazione privata. Ci facciamo raccontare storie su chi siamo e come dobbiamo essere per essere qualcuno che un qualche mercato vuole che siamo. Rendiamo privato e pubblico intossicati, e tossici.

Tutto il flusso in cui siamo immersi, bio e tecno, fa parte della nostra costruzione e decostruzione della soggettività. Quel che facciamo del corpo gioca sulla costruzione e decostruzione della nostra, o nostre, identità. Quanto si può far parte del reale, liquido vischioso come un gel, e non provarlo? Quello che ingoiamo, ci iniettiamo, sniffiamo, ci spalmiamo, lavora sul corpo, va giù, scivola in una discesa verticale, radicale, alla ricerca di un sé, di un’idea di sé. Lo abita. Il punto è: come? Con quale gesto, emulativo, replicante, autonomo, responsabile?

Diciamo che quella sostanza entra in un corpo che è l’anello della costruzione sociale culturale del tempo in cui vive, che non può vivere sganciato, sfilato via, per quanto libero si senta. Che non è il potere che si infila dentro di noi ma siamo noi che lo vogliamo, che non possiamo farne a meno, che desideriamo, dipendenti e complici, inocularci qualsiasi cosa ci faccia stare al mondo somigliando al potere che lo governa, identificandoci con lui, assumendolo in dosi sintetiche, facendoci.

Diciamo invece che questa sorta di sintesi tecnologica del mondo si insinua in un corpo mutevole, anzi, mutante, libero da preconcetti, pregiudizi, condizionamenti, perfino da rivendicazioni, un corpo che trasgredisce regole di comportamento e codici di identificazione, che disobbedisce a un ordine identitario che ci vuole tutti uguali, tutti maschi e femmine, che ci fa desiderare tutti la stessa cosa, lo stesso corpo, lo stesso desiderio.

Il corpo del filosofo Preciado si fa di una sostanza sintetica per diventare tecno-uomo restando bio-donna, assume su di sé il potere di stare “tra”, sganciato da qualunque ideale principio binario che vuole il mondo diviso in due, maschile e femminile, finzioni strumentali a un ordine perfino estetico del mondo. Si fa, non per essere altro, ma per essere. Lei, lui, il suo corpo, si vuole moltitudine. Si vuole in divenire. Proprio ciò di cui è fatto il reale.