Da un ritmo di crescita del 5 per cento e oltre all'anno, proseguito senza sosta per un decennio, nel 2016 il fashion ha visto nel suo complesso crescere le vendite di uno smilzo 2/3 per cento, con guadagni stagnanti, e con il segmento del super-lusso colpito ancora di più, visto che si è dovuto accontentare di una crescita ancora più bassa, lo 0,5-1 per cento. I dati del primo rapporto McKinsey

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Se fosse una nazione, sarebbe la settima potenza economica mondiale, davanti all'Italia e all'India, con 2,4 trilioni di dollari di Pil. Nella realtà è uno dei settori industriali più importanti, il cui impatto economico non ha confini: è il sistema moda, con un'industria apparentemente frammentata, effimera, e tuttavia potente, visto che è riuscita a crescere a dispetto della crisi e quando tutti gli altri settori industriali soffrivano, e ad assicurarsi guadagni superiori all'incremento stesso delle vendite: dal 2009 a oggi i suoi profitti economici – intesi come capacità di creare valore rispetto all'investimento - sono raddoppiati.

Su di essa la McKinsey ha appena pubblicato il suo primo rapporto, “The state of fashion”, e messo a punto un indice, il McKinsey Global Fashion Index, costruito con il database di 450 società del settore che non solo si propone di servire ad una analisi comparativa dei diversi segmenti del business, ma anche a individuare quali sono le nuove opportunità, più promettenti dal punto di vista reddituale, che la moda più far nascere (http://www.mckinsey.com/industries/retail/our-insights/the-state-of-fashion).

La scelta di usare un approccio più scientifico sul settore parte dal fatto che improvvisamente in quel mondo abituato a progredire senza freni, è arrivato l'anno della gelata. Da un ritmo di crescita del 5 per cento e oltre all'anno, proseguito senza sosta per un decennio, nel 2016 il fashion ha visto nel suo complesso crescere le vendite di uno smilzo 2/3 per cento, con guadagni stagnanti, e con il segmento del super-lusso colpito ancora di più, visto che si è dovuto accontentare di una crescita ancora più bassa, lo 0,5-1 per cento.

Il sotto-segmento degli orologi e della gioielleria, che galoppavano al ritmo dell'11 per cento fino all'anno scorso, appaiono come azzoppati e si sono dovuti accontentare di un più 1-2 per cento quest'anno. L'altro segmento che finora è stato la macchina da soldi invincibile, quella delle borse, da vertici del 10 per cento di crescita è precipitato a un 3-4 per cento.

Il giocattolo si è rotto? Anche per la moda è venuto il momento della resa dei conti con la crisi? In realtà secondo McKinsey il prossimo anno le cose riprenderanno a girare meglio, soprattutto grazie alla pronta capacità di reazione dei manager.

Meglio, ma non per tutti: solo il 40 per cento dei manager interpellati vede rosa, contro il 37 che invece vede nero. Soprattutto, i tempi in cui la moda sorpassava la crescita del Pil almeno di un punto percentuale sono definitivamente superati, e la frenata ha lasciato il segno. Ha cioè determinato alcuni cambiamenti essenziali nel corpo vivo dell'industria i cui effetti resteranno a lungo. Vediamo quali.

La parola d'ordine messa a fuoco da tutti nel 2016 è stata produrre con meno: meno tempo, meno denaro, meno fatica. Chi prima chi dopo ha avuto a che fare l'incertezza nei comportamenti dei compratori, la crescita del canale digitale (i compratori online saranno 940 milioni nel 2020 e spenderanno su quel canale un trilione di dollari), e la diminuzione del traffico pedonale dovuta alla paura del terrorismo, che hanno lasciato i negozi disperatamente vuoti e hanno eroso i margini.

L'altro fattore che ha segnato l'anno nero della moda è stato il rallentamento della Cina, dove i compratori cominciano a diventare più selettivi, e a spostare la loro attenzione d'acquisto su prodotti di fascia sempre più alta. Infine, i consumatori si sono abituati a ottenere dal mercato prezzi sempre più bassi, in una rincorsa senza fine a moltiplicare le occasioni di offerte speciali, saldi, aperture di discount shop e outlet.

L'industria ha risposto tagliando i costi. È il caso di Burberry, Sonia Rykiel, Roberto Cavalli ma anche Ralph Lauren and Marks & Spencer, che hanno reagito chiudendo molti dei loro negozi, riducendo il network e i dipendenti. Altri, facendosi più concorrenza l'uno con l'altro nell'andare sempre più in fretta sul mercato. Il metodo usato in origine solo nel cosiddetto fast-fashion si sta rivelando strategico anche nel settore del lusso che prima lo snobbava: per rispondere più rapidamente alla domanda di nuovo dei consumatori, per sollecitare gli svogliati, grandi brand come Burberry, Tom Ford, Tommy Hilfiger, hanno portato a settembre sulle passerelle prodotti concepiti con il criterio del “see now, buy now”, vedi e compra subito.

Altri ancora hanno capito che il canale digitale è in grado di esercitare un crescente controllo sui prezzi (nel lusso coprirà il 12 per cento delle vendite nel 2020), come dimostra l'esordio di Amazon nel settore, e che quindi è meglio imboccare autonomamente questa strada per tenersi stretti i clienti, magari seducendoli con il promettente strumento della realtà virtuale, che permette di creare degli show tridimensionali nei negozi o durante le sfilate per una esperienza di immersione totale del pubblico nel mondo di quel marchio.

Tutto ciò si è tradotto in una pressione crescente sui creativi. Fare sei collezioni l'anno, come si è arrivati in molti casi a fare ora (anche nel segmento lusso) porta i designer a sentirsi assoggettati sempre di più ai suggerimenti del marketing piuttosto che alla loro creatività, e a “scoppiare”. Non è un caso che negli ultimi tempi c'è stato un ricambio mai visto prima di firme da Christian Dior a Lanvin, da Calvin Klein a Saint Laurent a Ermenegildo Zegna, Berluti, Balenciaga, Oscar de la Renta, Brioni, tanto per fare alcuni esempi.

Di fronte alla crisi le case di moda hanno anche dovuto fare un bagno di umiltà. Si sono infatti piegate a diventare più attente ai mutamenti sociali del pianeta, a cui finora non hanno dato troppo peso. Se finora ognuno ha pensato per sé, nel momento il cui il glamour delle griffe si è appannato lo sguardo si è rivolto altrove, a chi invece se l'è cavata meglio.

Ci sono stati infatti due grandi vincitori nell'anno nero della moda: uno è il segmento dell'athleisure, quel tipo di prodotto che coniuga il fashion con la comodità e la vita sportiva. Qui il tasso di crescita è stato dell'8 per cento, e anche l'anno prossimo si prevede andrà più veloce degli altri. L'altro è quello che viene chiamato il “lusso a prezzi accessibili”, cresciuto del 9 per cento. Prendere spunto da questo e da altri trend del mercato (la moda islamica, come hanno fatto Uniqlo e Dolce e Gabbana quest'anno, produrre linee “genderless”, che vadano bene sia all'uomo che alla donna, come ha fatto Zara sempre quest'anno, o allargare il ventaglio delle taglie a forme più morbide, con un occhio all'invecchiamento della popolazione e alla sua capacità di acquisto) è stato il modo in cui l'industria ha tentato di reagire finora.

La risalita, prevede McKinsey, se ci sarà non farà comunque emergere nessun nuovo eroe del settore. Non ci saranno insomma eventi che permetteranno a qualche nuovo fenomeno di esplodere, perché i problemi che si sono presentati nel 2016 si trascineranno uguali nel nuovo anno. Il 2017 sarà piuttosto l'anno in cui i manager dovranno darsi molti da fare e dimostrare che sono loro, e non i designer, a salvare la gallina dalle uova d'oro.

La crescita, segnala il Report, si farà soprattutto tagliando ancora i costi, migliorando i processi produttivi, curando sempre di più la relazione con i clienti. E sarà affidata sempre al gruppo di testa del settore, quel 20 per cento di marchi “top” che già hanno fatto da soli in passato il 100 per cento dei guadagni: tra loro ci sono Adidas, Burberry, Chow Tai Fook, Richemont, Fast Retailing, Hermès, H&M, Inditex, L Brands, Luxottica, LVMH, M&S, Michael Kors, Next, Nike, Nordstrom, Pandora, Prada, Ralph Lauren and TJX.

Certo, il nuovo ambiente economico metterà l'industria del fashion, soprattutto i grandi gruppi multibrand che da soli fanno la parte del leone, di fronte alla necessità di focalizzarsi sulle griffe più forti della propria scuderia. La crescita, ammoniscono i consulenti, sarà “granulare”: cioè si dovranno affinare molti gli strumenti per capire cosa andrà di più e dove. Per fare un esempio, Hong Kong può diventare in pochi anni (di qui al 2025) la città numero uno per la gioielleria e la numero due per le borse, come Mexico City lo sta diventando per le scarpe, mentre Guadalajara e Kuwait City come molte città secondarie della Cina contano sempre più come fonti di ispirazione. Ma tutto ciò non sarà un male, anzi. Perché lascerà spazio a nuovi entranti: a totali outsider, pronti a giocare la loro partita, e ad alcuni marchi famigliari, che potranno trovare occasioni per crescere. Le opportunità nel 2017 si presenteranno, si tratta di prenderle al volo.