Hollywood si prepara al suo premio più importante. E tra le nomination spuntano due superfavoriti: Leonardo DiCaprio per The Revenant e Brie Larson per Room

Se si volesse individuare la data di origine di questa singolare corsa a ostacoli che sembra non finire mai e che avrà il suo show finale la sera del 28 febbraio al Dolby Theatre di Hollywood, probabilmente bisogna andare indietro a quella sera al Lido quando, alla Mostra del Cinema, c’è stata la prima di “Spotlight”. Era il 2 settembre dell’anno scorso, sei mesi fa. Subito dopo c’è stato il festival di Toronto e poi quel periodo tra ottobre e dicembre quando gli strateghi montano le loro campagne e i divi si prestano ogni giorno a interviste e proiezioni e tappeti rossi e selfies con tutti quelli che lo desiderano. E quindi sono venuti i Golden Globes e tutte le altre premiazioni, quelle dei critici televisivi e degli attori e dei produttori e dei registi.

Ora la grande notte delle stelle è davvero alle porte, ma la vigilia è ancora piena di incertezze. Perché se “Spotlight”, il film di Tom McCarthy sul team di reporter del “Boston Globe” che ha rivelato lo scandalo dei preti pedofili nella Diocesi di Boston resta il favorito, tra gli “Oscarologi” c’è anche chi vede crescere “La grande scommessa”, ironico affresco di Adam McKay sulla crisi del 2008.
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Quindi c’è “Revenant”. Dopo il trionfo con “Birdman” l’anno scorso, Alejandro Gonzalez Iñárritu potrebbe essere il primo regista a vincere l’Oscar per due anni consecutivi in oltre mezzo secolo ma sulla sua strada c’è un altro visionario che ha saputo creare immagini indimenticabili: George Miller, il papà dei primi e dell’ultimo “Mad Max”. Non sono sicuri nemmeno come non-protagonisti Alicia Vikander in “The Danish Girl” e Sylvester Stallone che in “Creed” torna ad essere Rocky Balboa.

Ma non ci sono dubbi che le statuette andranno solo ad attori bianchi, perché, come abbiamo sentito ripetere sino alla noia nelle ultime settimane, questo resterà l’Oscar della mancanza di “diversity” e dell’hashtag #OscarsSoWhite (che, quando la Academy ha cercato goffamente di porre rimedio al problema, è diventato #OscarsSoDumb, o OscarCosìTonti). E del fatto che nella categoria “Best Actor” e in quella “Best Actress” ci sono invece due candidati che arrivano da percorsi molto diversi, e su cui tutti si sentono sicuri: Leonardo DiCaprio e Brie Larson.

A quasi 20 anni da quando dalla prua del “Titanic” urlava “Sono il Re del mondo!” e le ragazzine svenivano di fronte a quel suo volto angelico, Leo è diventato un quarantenne (ne ha 41) che incarna il disagio e l’angoscia del maschio contemporaneo. Ha fatto cinque film con Martin Scorsese, ha affrontato temi difficili e pesanti con Clint Eastwood, con Steven Spielberg e con Christopher Nolan e a 22 anni dalla prima nomination con “Buon Compleanno Mr. Grape” e poi altre quattro finite in niente, questo è chiaramente il suo anno. Pochi invece avevano sentito parlare di Brie Larson prima che “Room” diventasse il cocco di critici e del pubblico al festival di Toronto ai primi di settembre. La Larson ha fatto pubblicità da bambina, è stata nella serie tv “The United States of Tara” e al cinema in “The Spectacular Now” e “Short Term 12”. Un anno fa, ben prima che le dessero la parte della ragazza sequestrata e imprigionata in una baracca dove tira su un bambino (Jakob Tremblay, bravissimo anche lui) frutto dello stupro del suo torturatore, aveva letto il best seller di Emma Donoghue senza neanche pensare all’eventualità di un film. «Perché io?», chiede l’attrice, che ha 26 anni: «Non ero nessuno».

In queste settimane abbiamo ampiamente appreso dei sacrifici e delle sofferenze di DiCaprio, che per replicare la vita dei cacciatori di pelle nel West della frontiera ha dovuto sostenere a sua volta una prova di resistenza fisica che ha incluso l’assalto di un orso, la digestione di vero fegato crudo di bisonte e settimane a 40 gradi sotto zero. «Faceva talmente tanto freddo», ricorda, «che anche se avevamo delle enormi macchine per riscaldarci le dita delle mani erano sempre doloranti». E poi a lui che è loquace e anche eloquente è stato chiesto di parlare il meno possibile e di esprimersi fondamentalmente con gli occhi. «È stato un viaggio esistenziale», aggiunge. 

Lo è stato pure per la Larson, anche se in circostanze quasi opposte. «Ho dovuto evitare il sole per tre mesi», ci racconta: «Ho parlato con esperti di traumi e con donne abusate sessualmente. Ho rivissuto vari momenti difficili della mia stessa vita, come il periodo in cui ho abitato con mia sorella e con mia mamma che piangeva la notte in un appartamento a Los Angeles, dove dovevamo estrarre l’unico letto dal muro e il bagno era un buco. E questa storia mi ha aiutato a ricordare che anche nelle situazioni più brutte e disperate ci sono sempre opportunità di bellezza e di perdono».

Entrambi, la Larson e DiCaprio, hanno trovato il modo di agganciare il loro film a realtà che stanno loro a cuore. «Con così tante donne che improvvisamente ne parlano apertamente, la questione dell’abuso sessuale è davvero urgente», aggiunge l’attrice: «Dopo questo film penso di poter guardare queste donne negli occhi e parlare di un problema per troppo tempo tenuto nel silenzio». Da attivista della battaglia per la salvezza del pianeta DiCaprio, che per discutere la questione a fine gennaio ha incontrato a Roma Papa Francesco, ha visto nella lotta per le risorse naturali del Far West l’inizio di una trasformazione del pianeta che «potrebbe avere effetti irreversibili». È diverso anche il modo di affrontare questa singolare stagione dei premi. Da consumato veterano, Leo ha apertamente fatto campagna calcolando le mosse giuste per arrivare all’ambito traguardo. Per Brie, invece, tutto è nuovo, anche se assicura di essere rimasta la stessa. «Continuo a mettere fuori la spazzatura e a raccogliere le cacche dei miei cani», assicura. Ora potrebbe aggiudicarsi la statuetta. Del resto, le vie per arrivare a un Oscar sono davvero infinite. E imprevedibili.