Un numero particolare per raccontare ?il “nostro” Eco. Di cui ci mancherà l’intelligenza. Ma anche le critiche che non ci risparmiava
Un anno o poco più. Nelle intenzioni di quel lontano 1985, direttore de “l’Espresso” Giovanni Valentini, la rubrica più longeva del nostro giornale era destinata, secondo il suo autore, a consumarsi rapidamente. «L’appuntamento settimanale corrode», scriveva Umberto Eco sul numero del 31 marzo di 31 anni fa (il testo integrale lo ripubblichiamo a pagina 34). “La bustina di Minerva” invece ha accompagnato noi e i nostri lettori fino a un mese fa: “La cattiva pittura di Hayez”, pubblicata sul numero 4, è l’ultima con la sua firma. L’aveva voluta scrivere, nonostante ne avvertisse la fatica, per rispettare quel patto siglato con i lettori anni e anni fa.
«L’Espresso è una malattia endemica», aveva ironizzato in occasione dei 60 anni della nostra storia. Poi, una domenica mattina, una telefonata: «Per un po’ smetto; un mese, forse due…». E la decisione concordata di darne conto ai lettori con un avviso nel sommario d’apertura del giornale. Per lealtà e trasparenza nei confronti di una comunità attenta e curiosa che lo ha seguito con affetto in tutti questi anni; una minima testimonianza è rappresentata dalla pagina delle lettere di questa settimana.
Umberto Eco ha iniziato a scrivere per “l’Espresso” mezzo secolo fa. Molto prima della sua “bustina” di successo. Nell’agosto 1968 è a Praga quando i carri armati sovietici schiacciano la primavera di Dubcek; invia il primo reportage dalla capitale cecoslovacca occupata mentre tutti i giornalisti italiani sono bloccati a Vienna. «Ho iniziato questa collaborazione ormai 50 anni fa. Se non è stato sempre un grande amore, è stato un matrimonio riuscito»; ha raccontato nella videointervista realizzata da Roberto Andò e Bruno Manfellotto per il docufilm Sky sempre disponibile sul sito web del nostro giornale.
Dolore, rimpianto, vuoto; sono gli stati d’animo che ci accompagnano dalla notte di venerdì 19 febbraio. “La bustina di Minerva” non è sostituibile. Individuare un altro intellettuale di pari leggerezza e densità cui affidare l’ultima pagina dello sfoglio è impresa difficile, pressoché impossibile, come scrive Eugenio Scalfari (a pagina 12) la cui rubrica, “Il vetro soffiato”, si è alternata settimanalmente con la “bustina”.
Questo numero non può che essere un racconto del nostro Umberto Eco. A partire dal ritratto di copertina di Tullio Pericoli, lo stesso che per anni ha contrassegnato la “bustina”. Per noi de “l’Espresso” è l’immagine più familiare del Professore: il simbolo che prevale sulla realtà. Il suo lascito è immenso; proviamo ad analizzarlo nella sua complessità: il filosofo, il romanziere, il polemista, il linguista, il giornalista…
Quest’ultimo non ha risparmiato critiche neppure al giornale che ha tanto amato, fino a raggiungere il traguardo delle nozze d’oro. È del 1980, direttore Livio Zanetti, un’accurata analisi del linguaggio del nostro settimanale, condensata nel fulminante titolo: «L’Espressese è una lingua biforcuta». Eco svela il gioco: mescolare il genere alto con quello basso, tra denuncia e sorriso. Così, raccontava, si recensisce una commedia come una questione di politica economica e si narrano le questioni economiche come se fossero una commedia. «Ecco», concludeva, «l’esperto vi ha detto chi, come, perché e quando l’Espresso ha dei difetti. (...) Però se arriverete a leggere questo articolo, capirete perché si continua a scrivere su questo giornale. Perché si può dire che è irritante. E si può perché l’Espresso è così irritante da accettare l’autoflagellazione pur di convincere il proprio lettore che non è irritante. Per questo è irritante».
Ecco perché, rileggendo quelle pagine, tutti noi ci sentiamo ancor più tristemente orfani di Umberto Eco.
Twitter
@VicinanzaL