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Attualità
febbraio, 2016

Ambiente, in Italia è rischio trivella selvaggia

Tremiti
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Solo società specializzate possono effettuare esplorazioni del terreno senza combinare guai. Non tutte quelle a cui l’Italia ha dato concessioni hanno queste caratteristiche

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C’è un aspetto particolarmente critico nella sostanziale libertà di trivellazione in Italia. Vedo troppe società nate dal nulla o quasi, con nomi esotici, azionisti incerti e capitali precari candidarsi al ruolo di trivellatrici. Ricordo a tutti, per esempio, che molti dei problemi determinati dal fracking negli Stati Uniti sono stati originati proprio da società del genere e non dal fracking in sé.

Al di là del fracking, l’attività di esplorazione e produzione di idrocarburi richiede società altamente specializzate, con un notevole track-record e spalle finanziarie larghe per sostenere eventuali danni. Basta la cattiva cementazione di un pozzo per consentire infiltrazioni di idrocarburi nel terreno o nelle falde; per le grandi società è una pratica standard, ma per le piccole senza storia può essere una roulette russa. A peggiorare lo scenario, se un danno è compiuto la grande società rimane lì e ne può rispondere, la piccola si dilegua così come (spesso) è nata: dal giorno alla notte.

Faccio un caso. La Petroceltic International è una piccola compagnia petrolifera irlandese che ha avuto alcune concessioni per la trivellazione nel nostro Paese, una nella Valle del Po e quattro - molto controverse - nell’area delle Isole Tremiti. Tuttavia, la Petroceltic versa in una situazione finanziaria drammatica.

La stessa società ha diffuso a dicembre un aggiornamento della sua situazione (si veda sul sito della società alla sezione Press Release, file “Operational and Financing Update”, del 23 dicembre 2015, da cui sono tratti i dati e le citazioni che seguono) in cui riconosce di avere un debito a brevissimo in scadenza di quasi 218 milioni di dollari, a fronte di una disponibilità di cassa inferiore ai 25 milioni di dollari, peraltro in valute locali (soprattutto Egitto e Algeria), e quindi non immediatamente convertibili.

Nello stesso documento, Petroceltic ammette che - in assenza di nuovi finanziamenti - non avrebbe liquidità «oltre la parte iniziale di gennaio (2016)». Da allora, la società ha avuto un prolungamento della scadenza del rimborso fino alla fine di gennaio, poi il buio.

Supponiamo adesso che Petroceltic trivelli in prossimità delle Tremiti e, per qualche ragione, le operazioni vadano male e ne derivi un danno ambientale. Chi paga? E attenzione. Quantomeno, Petroceltic è quotata in Borsa e alcuni elementi di base della società sono ben conosciuti. Tante altre società che si sono candidate alla trivellazione al largo delle nostre coste sono del tutto sconosciute, minuscole, e prive di sostanziali capitali.

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Porre degli argini alla libera penetrazione di società del genere sul nostro territorio è un imperativo categorico. Sarebbe possibile farlo guardando anzitutto al loro track-record e alla dimensione del loro capitale, garantendo che abbiano mezzi finanziari adeguati sia per sostenere le migliori pratiche di esplorazione e produzione, sia per il pagamento di eventuali danni. Quest’ultimo aspetto dovrebbe essere garantito imponendo a tutte le società che intendano presentare domande di concessione la presentazione di garanzie bancarie o il versamento in un escrow account temporaneo (deposito a garanzia) di somme adeguate a coprire eventuali danni futuri.

Detto questo, non sono ideologicamente ostile al tema più generale del “trivellare: sì o no?”. In linea generale, meglio dire un secco no alla trivellazione quando ha per oggetto formazioni dalle prospettive modeste o incerte. Ma un atteggiamento di totale chiusura è sbagliato. Cito sempre l’esempio storico dell’area marina prospiciente Ravenna, che fin dagli anni Sessanta ha accompagnato lo sviluppo dell’industria petrolifera offshore italiana: ha generato ricchezza per l’intera area, portando alla nascita di imprese specializzate che - al seguito dell’Eni - sono poi cresciute e hanno camminato nel mondo. E tutto questo senza che le attività turistiche o l’ambiente dell’intera regione abbiano subito alcun danno.

Certo, nessuno deve aspettarsi che dalle trivellazioni intensive possano davvero venire migliaia di posti di lavoro e grandi introiti per le casse del governo. L’attività petrolifera è ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro, quindi impiega un numero abbastanza basso di persone alle quali è richiesta una notevole specializzazione, che spesso si trova pescando tra tecnici già impiegati per altre società o - addirittura - pensionati. Inoltre, ai prezzi del petrolio di oggi e del prossimo futuro, i profitti di chi ha fortuna sarebbero comunque così bassi da non generare tasse significative.

Infine, solo l’Alto Adriatico e la Basilicata hanno riserve importanti di idrocarburi. La caccia a altre, potenziali risorse, rischia di tradursi in un accanimento insensato contro aree del nostro Paese la cui vera vocazione economica - sia essa il turismo, l’agricoltura di qualità e altro ancora - confligge con l’estrazione di petrolio e di gas. Se mai quest’ultima si materializzasse.

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