Questa fortuna, compresa la tuta indossata dalla Petacci, giace infatti da quasi due decenni nel caveau della filiale Bankitalia di via dei Mille a Roma all'interno di sacchi sigillati, come fosse paccottiglia qualunque. Conservata in ambienti inadatti insieme a migliaia di altri gioielli, monete d'oro, placche di platino e perfino un paio di lingotti d'oro, per lo più confiscati fra il '43 e il '45. Un patrimonio sterminato ma ignoto: nessuno sa con esattezza cosa contengano tutti i 419 plichi e le oltre duemila bisacce da cui è composto, perché un inventario completo non è mai stato fatto.
UN TESORO SCONOSCIUTO
C'è quasi mezzo secolo di storia italiana nei locali di sicurezza della Banca d'Italia a due passi dalla stazione Termini: i beni appartenuti alle vittime del terremoto di Messina del 1908; parte dell'oro donato "spontaneamente" alla Patria per finanziare la campagna d'Etiopia, quelli che gli ebrei italiani di Salonicco cercarono di salvare dopo l'invasione nazista della Grecia e quelli appartenuti ai prigionieri di guerra; chili e chili di monili e argenteria lasciata dai Savoia al Quirinale nella frettolosa fuga da Roma dopo l'8 settembre e le ricchezze che i capi del fascismo speravano di portare in Svizzera, fra ciondoli d'oro, banconote di varia nazionalità, collane con cristalli, orecchini, bracciali, gemme, rubini e collier.
E tutta italiana è anche la vicenda che circonda questo patrimonio. Nel 1953 i beni, custoditi fino allora presso le prefetture e le filiali di Bankitalia, furono trasferiti a Roma alla Tesoreria centrale del ministero. Dove sono rimasti fino al 1999, quando il servizio è divenuto competenza di via Nazionale, che da allora conserva tutto questo ben di Dio. Di cui però si sa poco o nulla, neppure quanto valga: né una catalogazione integrale né perizia sul valore sono mai state effettuate.
Una decina d'anni fa il ministero dell'Economia istituì perfino un gruppo di lavoro con Bankitalia e i Beni culturali per realizzare una ricognizione, esporre quel che lo meritava e vendere tramite il Demanio tutto il resto, come le monete rare. In un anno furono catalogati i 59 plichi di maggior rilevanza in base alle informazioni approssimative riportate su ognuno: meno del 15 per cento. Poi però, come spesso accade a tutte le iniziative frutto soprattutto della buona volontà, la funzionaria che tanto si era spesa per il progetto andò in pensione e il programma naufragò.
Nel 2007 i pezzi di maggior pregio furono esposti per una rapida conferenza stampa sull'attività di ricognizione svolta. Poi furono rimpacchettati e rimessi nei sacchi. E da allora tutto è fermo. Finora tutti i tentativi compiuti presso il ministero da via Nazionale non hanno mai sortito effetto. «Noi siamo meri custodi dei beni» afferma il responsabile del caveau Marco Rosi: «I locali di sicurezza sono ben areati ma quegli oggetti dovrebbero essere più utilmente custoditi altrove». Una vicenda kafkiana che adesso è sbarcata perfino in Parlamento con un'interpellanza del senatore del gruppo Misto Giuseppe Vacciano, dipendente Bankitalia in aspettativa, che chiede al Mef di completare almeno l'inventario.
INTERPELLANZA - TESORI DI UN RECENTE PASSATO IN BANCA D’ITALIAGli addetti ai lavori da tempo sanno che, dal 1999, all’...
Pubblicato da Giuseppe Vacciano - Attività Istituzionale su Martedì 1 marzo 2016
LO SPETTRO DEL DUCE
Il pezzo forte è il collare d'argento dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata appartenuto a Mussolini, formato da tre nodi savoia a forma triangolo, con al centro la Madonna e un angelo inginocchiato che le comunica il concepimento. L'onorificenza, la maggiore concessa dalla casa reale sabauda e risalente al '300, era talmente esclusiva da essere a "numero chiuso": solo in 20 potevano averla, per riceverla era necessario aspettare che qualcuno dei cavalieri insigniti morisse e il collare poteva essere indossato solo in occasioni particolarmente solenni alla presenza del re e doveva essere riconsegnato alla morte. Al detentore ne restava un altro, più piccolo, come quello del Duce.
Ma a villa Mantero, a Como, dove soggiornava coi figli nel tentativo di raggiungere anche lei la Svizzera, donna Rachele oltre al collare aveva portato con sé tutto quel che non era troppo d'ingombro: decorazioni in oro, platino e brillanti del Terzo Reich, monili con pietre preziose, una collana con cristalli sfaccettati, una medaglia celebrativa dei Patti lateranensi, una placchetta in avorio a lei dedicata e perfino - ironia della sorte per l'autore delle leggi razziali - una decorazione con tridente e stella di David. Tutti oggetti che giacciono da decenni in un sacco sigillato assieme alla tuta della Petacci, ai gioielli dei gerarchi e a tutti quei beni che i Savoia non riuscirono a portarsi appresso nella precipitosa fuga da Roma: quasi un quintale d'argento in tutto fra rare collezioni con lo stemma del casato, servizi da tavola, vassoi, candelieri, astucci e portasigarette.
«Quando ho visto quei cimeli durante la ricognizione ho avuto la sensazione che la giovane Repubblica avesse voluto seppellire simboli e ricordi che all'epoca potevano ancora scuotere parecchio» afferma Rosi, che nel 2005 fu nel gruppo di lavoro che catalogò il materiale. E se lo spettro del Duce, a decenni di distanza, non aleggia più, oggi pare la noncuranza il vero nemico.
DA REGGIO A SALONICCO
Nel piano interrato di via dei Mille, fra le pesanti scaffalature metalliche chiuse a chiave, alte cinque metri e lunghe oltre 20, la grande Storia si incrocia con la vita quotidiana di chi è salito all'improvviso agli onori della cronaca per una sciagura. Come i 100 mila morti provocati dal terremoto che nel 1908 devastò Messina e Reggio Calabria. Dopo il sisma venne costituito il Comitato centrale per i recuperi, incaricato di restituire ai legittimi proprietari o agli eredi gli oggetti di valore rinvenuti fra le macerie incrociando denunce e luogo di rinvenimento. Un lavoro certosino che andò avanti per due decenni esatti, quando la parte "avanzata" fu depositata presso la Banca di Reggio: orologi, candelabri d'argento, banconote italiane e straniere, francobolli, titoli di Stato e quote dei prestiti che il Regno d'Italia aveva sottoscritto a fine '800 a favore dell'impero asburgico, degli zar e del regno di Polonia.
Storie spesso drammatiche e misconosciute, come quella degli ebrei italiani di Salonicco, che durante l'occupazione nazista cercarono di salvare le cose più care affidandole alla Regia legazione d'Ungheria nella speranza di farle giungere a Roma: missive, risparmi, banconote, libretti postali e bancari. Tutto materiale che in realtà non si mosse mai dalla Grecia e che entrò in possesso del Tesoro solo nel 1962, tramite l'intervento della nostra ambasciata ad Atene. Ma a via dei Mille ci sono anche testimonianze di eccezionale valore documentario, come alcune quote del prestito che il finanziere John Pierpont Morgan junior concesse all'Italia fascista nel 1925 o il certificato del 1945 che attesta la sottoscrizione italiana al capitale della nascente Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.
SORPRESE DA SCARTARE
Resta invece un mistero cosa contengano gli oltre 300 plichi mai nemmeno aperti, perché le informazioni accluse sono estremamente sommarie: onorificenze della Gioventù italiana del littorio, una cinquantina di pacchi contenenti oro e metalli preziosi, banconote, un milione e 300 mila monete d'argento, 9 mila serie numismatiche complete, più tutta una parte con la dizione "oggetti diversi" di cui non si sa assolutamente nulla.
Tutte pagine del passato che avrebbero tanto da raccontare e potrebbero avere anche qualche ritorno economico. Se soltanto l'Italia non relegasse questo tesoro in un caveau dimenticato da tutti.