A Roma si teme che se l’Europa non inizierà a cambiare, la marea populista possa montare arrivando addirittura a mandare a casa Renzi. In un simile scenario, non è escluso che il Paese possa veramente uscire dall’Ue o dall’euro
Roberto Leoni, corpulento commerciante di prosciutto nella benestante città di Parma, è perfettamente in grado di ripercorrere la storia della crescente insoddisfazione del suo paese nei confronti dell’Unione europea seguendo una sequenza temporale in poche tappe.
L’entusiasmo ha iniziato a declinare più di dieci anni fa, quando la lira è stata sostituita dalla valuta unica e, da quel che dice, i prezzi sono raddoppiati dalla sera alla mattina. In tempi più recenti, poi, la tripla recessione italiana e la lenta ripresa – la responsabilità della quale è addossata da molti all’austerità imposta dall’Ue – hanno aggravato ancor più la situazione.
Ma ad assestare un ulteriore brutto colpo, probabilmente quello di grazia, decisivo, alla fiducia che Leoni riponeva – insieme a molti italiani – nell’unità dell’Europa, è stata la crisi dei rifugiati: negli ultimi due anni l’Italia ha accolto sul suo territorio oltre 300mila migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, e ciò le è costato più di tre miliardi di euro l’anno. Leoni crede che l’Italia non abbia la “capacità necessaria ad accogliere tutte queste persone che vanno a vivere sotto i ponti”, in parte perché ha ricevuto scarsi aiuti dagli altri stati dell’Ue.
“Non siamo scettici nei confronti dell’Europa, ma di come sono andate le cose” dice Leoni. “Non dovremmo pensare a uscire dall'Unione, ma non ci sentiamo salvaguardati dall’Europa e invece vorremmo essere apprezzati di più”.
Le parole di Leoni non si possono assolutamente definire ‘reboante retorica anti-Ue’ eppure, in linea di principio, riflettono con grande chiarezza un cambiamento non da poco subentrato nel comune sentire dell’opinione pubblica italiana negli anni recenti, e che in particolare ha messo sotto forti pressioni il governo di Matteo Renzi, il primo ministro di centro-sinistra, costringendolo ogni volta che si rapporta a Bruxelles a adottare toni di gran lunga più conflittuali rispetto a quelli utilizzati in passato da molti suoi predecessori.
Suscitando l’irritazione di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, e della cancelliera tedesca Angela Merkel, l’ex sindaco quarantunenne di Firenze ha più volte rimproverato l’Ue e i suoi stati membri per aver perseguito un modello economico sbagliato, improntato all’austerità, che rischia di dirottare il continente verso la paralisi politica o la conquista del potere da parte delle correnti più populiste.
Al vertice di dicembre dell’Ue, recriminando sul doppiopesismo che favorisce gli interessi tedeschi a discapito delle politiche di regolamentazione dell’Ue, dal settore bancario a quello energetico, Matteo Renzi ha detto sarcasticamente a Merkel: “Non potete certo raccontarci che state donando il sangue all'Europa, cara Angela”.
Da allora Renzi va dicendo che si rifiuta di essere “manovrato a distanza” da Bruxelles. Ha anche minacciato di bloccare i fondi strutturali destinati ai paesi dell’Europa centrale e orientale se questi non accoglieranno più rifugiati, e infine ha messo in discussione alcuni aspetti dell’accordo siglato con Ankara – finalizzato a contenere il flusso migratorio – che sono al centro dell’accalorato vertice dell’Ue fissato per oggi.
“È giusto prendere accordi con la Turchia, ma non a ogni costo” ha detto in Parlamento Renzi. “Nel negoziato si devono tenere presenti alcuni principi di fondamentale importanza, a incominciare dai diritti umani e dalla libertà di stampa” ha detto.
Renzi ha avanzato anche richieste proprie, alcune delle quali sono ora allo studio dell’Ue. Tra esse vi sono una politica comune d’asilo per alleggerire l’onere che ricade sugli stati più esposti al fenomeno migratorio come Grecia e Italia; una maggiore integrazione politica della zona euro; un maggiore margine di manovra di bilancio per contribuire a stimolare la crescita, ravvivare gli investimenti e ridurre la disoccupazione.
Debora Serracchiani, vice presidente del partito democratico al governo, stretta collaboratrice del primo ministro, ha detto: “Siamo convinti che l’Europa sia l’unica soluzione praticabile per l’Italia, ma vogliamo che essa abbia un futuro, non che sia soltanto un presente difficile. Se potremo mettere a punto una proposta alternativa, che riesca a tracciare una rotta diversa per l’Europa, non resterà spazio alcuno per l’euroscetticismo”.
Ricostruire la fiducia degli italiani, tuttavia, non sarà un compito facile per Renzi, tenuto conto di come il paese si è ormai disamorato dell’Europa. Secondo la società di sondaggi Ipsos, la percentuale di italiani che afferma di avere fiducia nell’Ue è crollata dai 73 punti del 2010 – prima che la recessione colpisse –, ai 54 di quando Renzi ha assunto il suo incarico nel 2014, agli appena 40 del gennaio scorso.
L’insoddisfazione nei confronti dell’Unione è assai diffusa tra la popolazione: è tanto forte nel ricco nord quanto nelle regioni meridionali più disagiate, dilaga sia tra i giovani sia tra gli anziani. Secondo un recente sondaggio condotto da Demos, inoltre, tra i cittadini italiani l’irritazione verso Bruxelles è anche di gran lunga superiore rispetto a quella delle popolazioni di altri grandi stati membri quali Francia, Spagna, Germania e addirittura Regno Unito, dove la prossima estate sarà indetto un referendum per decidere se restare nell’Ue.
Il dato che più colpisce, tra quelli presi in considerazione dal sondaggio, è che la maggioranza degli italiani intervistati è favorevole al ripristino dei controlli dei documenti alle frontiere nell’area Schengen, dove oggi si circola liberamente, anche se ciò dovesse voler dire, per i migranti presenti in Italia, restarvi bloccati e non poter proseguire verso nord.
“L’Ue non è vista soltanto come un’entità lontana: sotto molti punti di vista, è considerata una persecutrice” dice Luca Comodo, direttore della divisione politico-sociale di Ipsos.
Appena pochi anni fa, in Italia un verdetto così negativo sull’Ue sarebbe stato equiparabile a un vero e proprio sacrilegio: per decenni Bruxelles è stata vista da Roma come simbolo di opportunità economiche, fonte di pace duratura e, forse, aspetto ancora più importante, una sorta di “vincolo esterno” in grado di difendere il paese dalle sue stesse debolezze, per esempio la lassità di bilancio, la corruzione, la debolezza delle sue istituzioni.
Silvio Berlusconi, ex primo ministro per tre mandati, coinvolto in scandali a sfondo sessuale, ha iniziato a mettere a repentaglio quel consenso quando ha moltiplicato le sue critiche opportunistiche e infondate nei confronti dell’Ue, in particolare verso la fine del suo mandato del 2011, quando aumentavano su di lui le pressioni affinché rassegnasse le dimissioni.
Renzi afferma che il suo opporre resistenza a un rapporto di eccessiva deferenza nei confronti delle istituzioni dell’Ue è, per ciò che lo concerne, profondamente diverso. Crede infatti che i suoi tentativi di varare le riforme e di indurre cambiamenti nel sistema politico inceppato dell’Italia, dovrebbero rendere le sue proteste più credibili alle orecchie di Bruxelles.
“Quando è arrivato Renzi, in pratica ha detto: ‘Sentite, farò ciò che è bene fare per l’Italia a prescindere da quello che dirà l’Europa e, quando l’avrò fatto e avrò dimostrato la mia capacità di andare fino in fondo con le riforme, tornerò indietro e dirò all’Europa cosa è bene che faccia lei’” dice Erik Jones, docente di scienze politiche alla Facoltà di alti studi internazionali di Bologna.
Il rischio, per Renzi, è che questo suo tono sfrontato e diretto nei confronti dell’Ue si riveli controproducente. “Penso che combattere l’euroscetticismo con l’euroscetticismo sia un gioco azzardato” dice un diplomatico Ue a Roma. “Resta da capire se Renzi stia soltanto riflettendo una certa insoddisfazione nei confronti dell’Ue o se la stia ingigantendo”.
L’ex primo ministro Mario Monti, commissario per la concorrenza europea, è stato brusco nelle sue critiche espresse davanti al Senato italiano il mese scorso, quando ha affermato senza mezzi termini che l’approccio di Renzi sta contribuendo alla “distruzione sistematica di tutto ciò che l’Ue ha significato finora”. Ha anche aggiunto che ciò rischia di portare a un “pericoloso allontanamento” degli italiani dall’Ue.
A febbraio Enrico Letta, mandato a casa da Renzi dopo una lotta intestina per il governo, si è unito al coro di critiche sul quotidiano “La Stampa”: “Questo tipo di politica italiana molto aggressiva e spiacevole nei confronti dell’Europa finirà coll’isolarci e metterci in pericolo, esponendoci alla possibilità di diventare un altro caso Grecia, invece che il centro dell’Europa” ha rincarato.
Altri ambienti dell’establishment italiano, come Confindustria, la più grande associazione delle imprese italiane, nutrono sempre più rabbia nei confronti di alcune decisioni prese a Bruxelles, tra le quali le nuove regole di bail-in che nel 2016 hanno innescato una crisi di fiducia degli investitori nelle banche italiane, e potrebbero condurre alla possibile designazione della Cina come “economia di mercato”, definizione che imporrebbe vincoli alla capacità del blocco di riscuotere tributi anti-dumping dalla nazione asiatica.
“Sono assolutamente d’accordo con il nostro premier. Anzi, mi sembra che Renzi sia stato fin troppo buono” commenta Lisa Ferrarini, vicepresidente per l’Europa a Confindustria e direttrice esecutiva del gruppo Ferrarini, azienda produttrice di salumi e formaggi nella provincia parmense. “Sono un’eurofila convinta, e sono felice che sul mio passaporto sia stampato ‘Unione europea’. Ma in questo momento stiamo ricevendo quelli che si definiscono ‘schiaffi alla cieca’ e questo ci secca molto” ha poi aggiunto.
Per rafforzare la sua posizione, Renzi sta stringendo alleanze, soprattutto con i leader europei di centro-sinistra come François Hollande, il presidente francese, e i socialisti del Parlamento Europeo. “Stiamo dando vita a un network che rafforzerà la posizione del governo italiano” ha detto Serracchiani.
Un importante banco di prova per comprendere quanto siano profonde le tensioni tra Roma e Bruxelles lo si attende per maggio, quando l’Ue dovrà decidere se accogliere la richiesta presentata da Roma di una maggiore flessibilità nel bilancio annuale. L’Italia ha infatti chiesto tolleranza nei confronti di deficit più alti imputabili ai suoi sforzi riformistici, il suo programma di investimenti, le sue spese per i migranti e le misure antiterrorismo.
Una risposta negativa da parte dell’Ue metterebbe Renzi nella scomoda posizione di dover scegliere tra nuovi tagli alle spese e la riduzione degli sgravi fiscali, per colmare la differenza, o ancora dare un ulteriore giro di vite alla ribellione nei confronti dell’Ue.
Un simile scenario sarebbe probabilmente accolto con grande giubilo dal Movimento populista dei Cinque Stelle e dalla Lega Nord, contraria all’immigrazione, diventati rispettivamente il secondo e il terzo partito più importante sulla base di piattaforme euroscettiche. Costoro considerano i toni duri usati da Renzi contro Bruxelles alla stregua di un’acrobazia o un espediente politico messo a punto per giocare allo scaricabarile e rifilare così ad altri la responsabilità della sua stessa impotenza nei confronti del fenomeno migratorio e della debolezza dell’economia, cresciuta appena dello 0,1 per cento nel primo trimestre del 2015.
Ma perfino il Movimento dei Cinque Stelle e la Lega Nord sono cauti nel promuovere e caldeggiare apertamente un’uscita dell’Italia dall’Ue o addirittura dall’euro. Perché l’opinione pubblica non è ancora pronta a compiere questo salto.
Federico Pizzarotti del Movimento dei Cinque Stelle, eletto nel 2012 sindaco di Parma in seguito allo scontento per gli scandali legati a casi di corruzione in città, dice che la recessione e la crisi migratoria hanno fatto capire una volta per tutte che l’Europa è “un’entità che non trova soluzioni, ma ci abbandona ai nostri problemi”.
Nemmeno Pizzarotti, in ogni caso, ha certezze fondate in merito al sostegno da dare al piano del suo partito e volto a indire un referendum sull’appartenenza dell’Italia alla zona euro. “Non so se sia meglio starvi dentro o fuori, ma nessuno si è mai chiesto: ‘E dopo, che cosa potrebbe accadere? Una volta rimasti soli, che cosa potremmo fare?’”.
A Roma si teme che se l’Europa non inizierà a cambiare, in Italia la marea populista possa montare e avanzare con maggiore spavalderia, arrivando addirittura a mandare a casa Renzi. Nel 2018 sono fissate le elezioni, ma il premier potrebbe dover affrontare una crisi anticipata, se gli elettori in un referendum indetto in autunno dovessero respingere le sue riforme costituzionali. In un simile scenario, non è così scontato che l’Italia non possa veramente finire coll’uscire dall’Ue o dall’euro.
“La gente non resta ancorata a un progetto soltanto perché le piace” dice Cesare Azzali, capo dell’Associazione degli Industriali di Parma. “Ormai c’è in gioco la sussistenza della popolazione, e o ci prepariamo a dare risposte concrete, oppure questa Europa non avrà un’esistenza fruttuosa o duratura”.
Alla Salumeria Garibaldi, altro prelibato negozio di gastronomia di Parma, il direttore Vincenzo Salvadori ha ben chiara in mente la soluzione per riaccendere il rapporto d’amore tra Italia e Ue che si sta spegnendo: “Il paese europeo più forte, la Germania, deve essere molto rigido ma deve anche darci i mezzi per crescere più forti insieme, e non mi riferisco soltanto a quelli a livello economico e finanziario, ma anche e soprattutto sociale” ha detto. “Ci serve molta più coesione”.
Traduzione di Anna Bissanti. Copyright The Financial Times Limited 2016
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