Tim Jenkin, l'inventore della crittografia anti-apartheid di Nelson Mandela

Evaso di prigione costruendosi chiavi in legno, è stato il genio che ha permesso all'African National Congress di mantenere comunicazioni segrete tra i leader e i militanti. A l'Espresso racconta la sua storia straordinaria

Tim Jenkins. Photocredit: courtesy Jake Appelbaum
A vederlo sembra il più improbabile degli eroi. Minuto, pacato, profilo bassissimo. Ma quando inizia a raccontare la sua storia, Tim Jenkin si rivela un gigante, geniale e coraggioso. Se un'icona dei diritti umani come Nelson Mandela ha vinto la sua battaglia contro l'apartheid, è anche grazie al ruolo cruciale di Jenkin. Fu lui, infatti, a creare e gestire il sistema di messaggi criptati che hanno permesso a Mandela e alla leadership del suo movimento, l'African National Congress (Anc), di comunicare in modo segreto e sicuro con tutta la rete di combattenti che operavano clandestinamente in uno dei regimi più brutali del mondo: il Sud Africa dell'apartheid.

Jenkin nasce in una famiglia bianca della borghesia sudafricana di lingua inglese. Negli anni '70, quando frequentava l'università, l'apartheid era la normalità. «Io non avevo idea della sofferenza della popolazione africana nel mio paese», racconta a “l'Espresso”. «L'apartheid era semplicemente percepito come l'ordine naturale delle cose: i bianchi vivevano in certe aree delle città, i neri da qualche altra parte, noi eravamo gli europei e gli altri erano semplicemente i neri. Due mondi completamente diversi, in cui l'apartheid non era considerato un'ideologia, ma era visto come l'ordine naturale delle cose: se cresci in un certo sistema, non lo metti in discussione, perché non hai mai provato qualcosa di diverso».

COME ZEBRE NELLA BOSCAGLIA

Jenkin racconta della sua educazione completamente “bianca”: «Studiavamo la “storia dei bianchi”, che per il Sud Africa iniziava con l'arrivo nel paese dei primi colonialisti, senza alcun riferimento ai neri: erano come gli animali, come le zebre nella boscaglia». All'università, nella facoltà di sociologia che frequenta nei primi anni '70, Jenkin comincia a farsi domande e a scoprire gli orrori dell'apartheid: «Chi faceva uno sforzo per cercare di andare nelle aree delle città in cui vivevano i neri, poteva rendersene conto. Ma in realtà nessuno di noi veniva incoraggiato ad andarci, al contrario, in molti casi non era possibile recarsi in quelle aree perché serviva un permesso speciale e per ottenerlo era necessario avere un motivo preciso: non si poteva dire di avere un amico che viveva lì, perché non esistevano amici neri e personalmente non avevo mai incontrato un nero in tutta la mia vita».

Dopo gli studi di sociologia, Jenkin vola a Londra e inizia il suo lavoro con gli attivisti dell'African National Congress (Anc), il movimento di liberazione dei neri, dichiarato illegale in Sud Africa, dopo imponenti ribellioni e scontri nel paese, che avevano portato Nelson Mandela e praticamente tutta la leadership dell'Anc in prigione.

VIVERE COME SPIE

In quegli anni, l'Anc ha un'imponente presenza nella capitale inglese: uffici, simpatizzanti, supporto internazionale. Jenkin capisce che da bianco può fare la differenza nella lotta di liberazione: può tornare in Sud Africa, vivere la vita apparentemente normale e privilegiata della sua gente, e allo stesso tempo operare in incognito per l'Anc. Si procura un lavoro che è la copertura ideale: ricercatore universitario alla facoltà di sociologia, che studia l'urbanizzazione nei quartieri dei neri. E' in questo modo che può accedere alle aree interdette e parlare con la popolazione nera, senza destare particolari sospetti. Nessuno sa del suo lavoro per l'Anc, neppure le persone a lui più care e vicine, come i familiari e la fidanzata: «Era una situazione estremamente dura, perché richiedeva di vivere una vita del tutto doppia, come quella delle spie, con la differenza, però, che noi non eravamo spie», racconta Jenkin. «Era dura perché mentivamo alle nostre famiglie, ai nostri amici e a tutti. Segreti, inganni, offuscamento».

A Londra, Tim Jenkin ha ricevuto un addestramento che gli ha insegnato a gestire gruppi clandestini di attivisti, preparare volantini e pubblicazioni che denunciano il regime dell'apartheid e incitano alla lotta politica. Ma distribuirli per le città del Sud Africa è impensabile: roba da finire immediatamente in prigione. Per far circolare il materiale, l'Anc usa le “bombe di volantini”: «Erano poco più potenti dei fuochi di artificio, ed esplodendo, disperdevano le pubblicazioni per le strade». Ha mai ferito qualcuno? «Mai», risponde alla domanda, raccontando come dopo ogni bomba di volantini, i giornali sistematicamente titolassero: “I terroristi colpiscono ancora”. «Questo risultato era più importante dei messaggi stessi stampati sui fogli dispersi, perché quei titoli mantenevano l'idea che l'Anc era vivo e presente nel Paese», in anni in cui leader e attivisti marcivano in prigione e l'attività del movimento di resistenza sul campo era praticamente inesistente.

Dopo due anni e mezzo di lotta politica sotto copertura, Jenkin viene arrestato. Per la sua famiglia è uno choc scoprire il suo coinvolgimento con l'Anc. Finisce nella prigione di alta sicurezza di Pretoria, condannato a dodici anni. Ma Jenkin non è un carcerato come tutti: è geniale e ha talento nel costruire gli oggetti. Lavorando nel laboratorio di falegnameria del carcere, capisce che, usando il legno, può costruire una copia delle chiavi delle porte dell'intera sezione della prigione in cui è rinchiuso. Riesce a costruirle e a evadere. Fugge dal carcere di alta sicurezza, scappa dal Sud Africa e con l'aiuto dell'Anc riesce a tornare a Londra.

VULA CONNECTION

Ritornato nella capitale inglese, Tim Jenkin capisce che l'operatività dell'Anc sul campo è completamente compromessa dalle comunicazioni inefficienti: «Una delle ragioni per cui eravamo stati arrestati era proprio il sistema inaffidabile con cui comunicavamo», ricorda. «Del resto come si può costruire una struttura clandestina che opera in un paese, se gli attivisti non si parlano tra loro?». Né aiuta il fatto che gli operativi sul campo si trovano in Sud Africa, mentre i leader scampati alla prigione operano in Zambia e da lì dirigono la resistenza, ma dirigere una rivoluzione da remoto senza avere un sistema di comunicazione rapido e sicuro è impossibile.

Con gli anni '80, la tecnologia si evolve. Cominciano a diffondersi i primi computer e Jenkin impara fin dall'inizio a programmarli: «Ho una mente matematica e un fascino per la tecnologia»,  spiega. Le prime macchine non fanno nulla: non permettono di inviare email, di accedere a internet, non è possibile spostare i dati da un computer all'altro con una chiavetta Usb. Ma c'è una cosa che permettono di fare: criptare velocemente i messaggi. «Bastava scrivere il messaggio al computer, premere un bottone ed era fatta!», ricorda Jenkin, spiegando quanto fosse stato penoso e lento criptare i messaggi a mano, fino a quel momento. Studiando le soluzioni commerciali allora disponibili per cifrare le comunicazioni, Tim Jenkin arriva alla conclusione che nessun sistema è affidabile: «Anche allora, molto prima di Edward Snowden, non ci fidavamo, perché si parlava già di vulnerabilità nei software commerciali disponibili, e quindi dovevamo reinventarci noi un modo di comunicare cifrato».

Il sistema che Jenkin architetta è notevole: i messaggi vengono cifrati usando un computer, trasformati in un suono tramite un modem acustico, il suono viene registrato usando un piccolo registratore per poterlo trasmettere al destinatario. Come avviene la trasmissione? Il mittente si reca a un telefono pubblico e trasmette il suono via telefono al destinatario, lasciandolo in una segreteria telefonica. Il destinatario lo riceve e fa il processo inverso: dal suono risale al messaggio cifrato, lo decifra e per rispondere ripete esattamente i passaggi fatti dal mittente. Il sistema di cifratura usato da Jenkin è il cosiddetto “one-time pad”: chiavi di cifratura lunghe come il messaggio che si vuole criptare e con la chiave che può essere usata solo una volta e poi va distrutta. Si tratta di un sistema che, se usato in modo assolutamente scrupoloso, è invincibile: non c'è modo di forzarlo.

Con questa soluzione, l'Anc riesce finalmente ad ottenere l'operatività necessaria per comunicare rapidamente e in modo completamente sicuro, tanto che a partire dal 1988, mette in piedi l'“operazione Vula” per riportare in Sud Africa clandestinamente i leader della resistenza sfuggiti al carcere in modo da preparare l'attacco finale al regime dell'apartheid. Secondo Jenkin, le spie del regime sud africano non sono mai riuscite a penetrare le comunicazioni dell'Anc: se il nemico avesse compromesso il sistema di comunicazione dei ribelli, riuscendo a decifrare i messaggi con cui venivano pianificate e organizzate le azioni degli operativi dell'Anc sul campo, qualche operazione sarebbe saltata e invece non accadde. L'unità che a Londra gestiva il cuore delle comunicazioni della resistenza anti-apartheid era completamente blindata per evitare infiltrazioni: ne facevano parte solo Tim Jenkin e un altro uomo dell'Anc, gli unici a conoscere il sistema completamente. Gli altri avevano accesso soltanto a una piccola parte delle informazioni, non al quadro completo di chi faceva cosa, come lo faceva e con quali finalità.

Paradossalmente, il cuore delle comunicazioni dell'Anc si trovava proprio a Londra, che in quegli anni era schierata con il regime dell'apartheid. Quella Londra in cui già operava il Gchq, il gemello inglese della Nsa, fondamentale per i programmi di sorveglianza di massa della National Security Agency. «Ovviamente, l'intelligence inglese sapeva: vedeva questo flusso di comunicazioni tra noi e l'Anc in Zambia, credo che monitorassero tutto, senza però intervenire», ricorda Jenkin, dicendosi convinto che il sistema non sia mai stato compromesso. Questa, secondo lui, è una lezione che vale ancora oggi: qualunque legge o soluzione i regimi e gli stati vogliano imporci per bandire la crittografia e le comunicazioni sicure, il modo di aggirarlo si trova sempre, se si hanno competenze e sufficiente determinazione.

In quegli anni, la resistenza anti-apartheid è stata sostenuta anche da paesi del blocco comunista, come la Germania dell'Est. Anche il vostro sistema di comunicazioni ha ricevuto supporto da loro?  «Non è un mistero – risponde Jenkin – che gran parte del sostegno ci arrivasse dai paesi socialisti, prima del crollo dell'Unione Sovietica e della caduta del Muro, che fornivano supporto finanziario e anche medico». Ma Jenkin nega assolutamente che la sua unità abbia ricevuto una qualsiasi forma di assistenza, anche solo di addestramento o di fornitura delle tecnologie, dalle spie dell'Est. «Non ci fidavamo di nessuno», racconta, «e per questo costruimmo il sistema da soli», sottolinea, raccontando anche come sia stato cruciale per lui usare strategie completamente non ortodosse, inusuali e che tutti gli esperti che avevano consultato ritenevano destinate al fallimento: «“Non funzionerà mai!”, ci dicevano tutti».

MANDELA DAY

L'11 febbraio del 1990 Nelson Mandela viene rilasciato dalla prigione, dopo ventisei anni di carcere, e l'Anc esce dalla clandestinità a cui l'aveva costretto 30 anni prima il regime. Ma il sistema di comunicazioni criptate, che permetteva a militanti e operativi dell'Anc di agire, non fu smantellato fino al 1992: «Non ci fidavamo del regime», racconta Jenkin, ricordando come temessero che le negoziazioni ormai iniziate tra l'Anc e il regime potessero essere una trappola.

Solo nel 1994, in Sud Africa si tengono le prime elezioni democratiche e Nelson Mandela diventa presidente. Tim Jenkin è già rientrato nel suo paese da Londra ormai da tre anni e lavora negli uffici dell'Anc con Mandela, che adesso ricorda come un leader straordinario: «Non lavoravo direttamente con lui, ma negli stessi uffici e continuavo ad occuparmi di comunicazioni. Mandela era un grande personaggio: c'era una mensa negli uffici e lui veniva lì, non andava al ristorante, parlava, beveva con tutti e aveva una capacità eccezionale di ricordare i nomi di tutti. Riusciva a ricordare anche i nomi dei miei figli, nonostante tutte le persone con cui si vedeva ogni giorno».

Jenkin continua a lavorare per l'Anc fino al 1997, poi passa ad altro. E' soddisfatto di come oggi vede il suo Paese, dopo aver lottato tanto contro il Sud Africa dell'apartheid? «Non sono soddisfatto per niente», risponde, «ma non sono sorpreso: la caduta del regime ha coinciso con il collasso dell'Unione Sovietica e dei paesi socialisti. A quel punto Stati Uniti e paesi occidentali si sono ritrovati a dominare la scena e continuano a imporci la loro egemonia: il Sud Africa è finito in questo schema e poiché era messo malissimo dal punto di vista economico – visto il boicottaggio internazionale dell'apartheid – appena andato al potere, l'Anc ha avuto bisogno del Fondo Monetario Internazionale (Imf). Per accedere ai prestiti dell'Imf, devi fare quello che ti dicono: devi essere amico delle grandi corporation, non puoi continuare con le politiche socialiste che avevamo sviluppato nel corso dei 20-30 anni precedenti. A quel punto la politica dell'Anc si è focalizzata meno sui poveri e su chi aveva sofferto durante l'apartheid».

Tim Jenkin non nasconde la sua disillusione con la politica sudafricana oggi: «Non credo più in quel tipo di politica», dice, «credo nella costruzione del mondo in cui voglio vivere: voglio uscire da questo sistema e sono entrato in un movimento chiamato “Monete Alternative”, per creare i nostri stessi sistemi di pagamento». Racconta come ormai tanta gente voglia «uscire dal sistema, fabbricarsi la sua elettricità, produrre il proprio cibo, ma quello che continua a tenerci dentro il vecchio sistema è il denaro tradizionale, perché se vuoi comperare una macchina, un telefono, una casa, hai bisogno di soldi. E' lo stesso sistema con cui i colonialisti, non solo quelli sudafricani, hanno distrutto le società tradizionali». Si congeda con un ultimo ragionamento pacato da  rivoluzionario mite: «Non bisogna alimentare la bestia, non bisogna alimentare questo sistema: crea la società in cui vuoi vivere».

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