Il sistema bancario è sull'orlo di una crisi. Popolare di Vicenza e Veneto Banca rischiano di essere la nostra Lehman Brothers, il punto di frattura che manda gambe all'aria l'intero mondo del credito

banche, rbs
Cos'altro deve accadere per farci capire che il sistema bancario italiano è sull'orlo di una crisi? Una crisi di cui fino a poco tempo fa tutti negavano la possibilità, assicurando della sostanziale solidità del nostro credito, con il Monte dei Paschi indicato come l'unico punto dolente ma ormai sotto controllo? Cos'altro deve capitare per renderci conto che la Popolare di Vicenza e Veneto Banca – due banche regionali di medio calibro – rischiano di essere la nostra Lehman Brothers, cioè il punto di frattura che manda gambe all'aria l'intero mondo del credito? Tutto questo mentre nessuno fa un solo accenno alla posizione dei risparmiatori, che nelle banche hanno i loro denari

Sotto i nostri occhi si sta componendo negli ultimi giorni uno scenario da brivido che conviene riassumere.

Dopo l'intervento di fine 2015 sulle salme di quattro banche (Etruria, Banca Marche, Casse di risparmio di Chieti e di Ferrara) da parte del governo, che ha disposto per decreto la scomposizione in una parte buona che può continuare a operare (dopo aver azzerato il patrimonio degli azionisti e molto dei risparmi dei clienti), e in una parte cattiva che cercherà di vendere i crediti deteriorati, ora serve un nuovo intervento straordinario. Per il quale non basta più il Fondo di risoluzione finanziato dall'intero sistema bancario. È necessario un bazooka. Un'arma definitiva che intimidisca il nemico – segnatamente la speculazione finanziaria sempre in agguato quando sente l'odore del sangue – e che dimostri che per il problema cruciale dell'industria del credito italiano - la montagna dei 360 miliardi di crediti deteriorati (non performing loans, NPL), di cui 200 di “sofferenze” - c'è una soluzione.

E chi lo arma questo bazooka battezzato con il nome di Atlante? Le munizioni del Fondo collettivo, dopo i 3,6 miliardi spesi per le quattro banchette di cui sopra, non bastano più. Qui la questione è assai più grossa, perché le due venete in bancarotta e con la necessità vitale di nuovo capitale (1,8 miliardi la Popolare, un miliardo Veneto banca) sono incastonate in un sistema complesso di relazioni finanziarie che risvegliano lo spettro del “to big to fail”, troppo grande sarebbe il danno per farle fallire. Un intervento dello Stato, come hanno fatto in passato non solo gli Usa, ma anche la Germania, l'Irlanda, la Spagna? Non si può fare, visto che ormai lo vieta la regola europea del “bail in” (cioè: il conto lo pagano solo gli interessati, non la collettività) ma anche lo stato del nostro debito pubblico. E allora?

Allora i soldi di Atlante li mettono i pesi massimi. Intesa e Unicredit scendono in campo, si tassano e scuciono un miliardo a testa, mettendo alla prova i propri bilanci e aumentando la propria esposizione al rischio, poi per pura decenza si aggregano un po' di Fondazioni, e sfidando il ridicolo persino due delle banche meno performanti del sistema come Mps e Carige. Altri soggetti finanziari, dai fondi pensione alle assicurazioni, per ora si tengono alla larga. È chiaro quindi che tutto si regge sulla presenza dei due big. Che però non si sono mossi da soli. Hanno cercato una spalla, un terzo soggetto – pubblico - che è la Cdp, braccio finanziario per la politica industriale dello Stato ma anche garante del risparmio postale dei cittadini. La Cdp, sotto la regìa dei due banchieri che Renzi ha messo al vertice, Fabio Gallia e Claudio Costamagna, non solo è accreditata dell'idea di Atlante, ma ci scommette anche mezzo miliardo di euro.

Potrà Atlante reggere il peso dell'impresa? Per ora ha raggiunto i 4 miliardi di munizioni, ma è previsto possa arrivare a 6. Chissà. Di certo, i soldi che ci sono sicuramente hanno già una destinazione: partecipare all'aumento di capitale reso necessario alle due banche venete dalla voragine aperta nei conti, e in una terza banca, il Banco Popolare. L'idea ottimistica è che Atlante compri l'inoptato, ma c'è la concreta possibilità che debba accollarsi il controllo almeno delle due prime banche. Con quel che resta delle munizioni del bazooka, si cercherà di dare un mercato ai crediti deteriorati che nessuno vuole pagare più del 18-20 per cento del valore, mentre le banche li hanno valutati al 40 per cento nei loro bilanci. Atlante quindi ha la missione tecnica di restringere questa forbice.

Tutto bene, dunque? Niente affatto. Atlante rischia di avere infine una coda velenosa, ha avvertito Standard&Poor's. I mezzi di Atlante, innanzitutto, non serviranno per soddisfare tutte le necessità di nuovo capitale di cui il credito italiano ha bisogno come di una trasfusione vitale, provato com'è dalla crisi ma anche da scelte avventate come quella di esporsi tanto sul settore immobiliare: stretto tra sovrapproduzione e crollo dei prezzi, il mondo dei costruttori ha lasciato molte banche con il cerino acceso in mano. La ricapitalizzazione non è limitata alle due banche venete. Anche Mps dovrà ricorrere di nuovo al mercato, si dice per altri 3 miliardi. E anche la Carige ne avrà bisogno. Serviranno quindi nuovi puntelli che Atlante difficilmente sarà in grado di gestire: “serve per riparare il sistema bancario nel breve termine”, ha scritto Moody's, mettendo in chiaro che non sarà il neonato fondo la soluzione definitiva.

Ma che nessuno – neanche il governo - creda che Atlante possa fare da solo lo dimostra la proposta fatta dall'asse Italia e Francia per anticipare l'apertura del paracadute collettivo previsto per le crisi bancarie: dare al più presto le risorse al Fondo di risoluzione unico previsto dall'Unione bancaria europea e farlo partire immediatamente invece che attendere il 2024. Il tempo stringe, la crisi è adesso. Così, queste risorse verrebbero anticipate da una linea di credito dell'Esm, il Meccanismo europeo di stabilità, operativo dal primo gennaio di quest'anno. I ministri europei ne parleranno nei prossimi giorni e si vedrà se la proposta verrà accolta o no. Di certo, l'Europa sa che il continente non si può permettere una miccia accesa sotto le banche.

Ma qual è la coda velenosa temuta da Standard&Poor's? Quella di esporre i partecipanti al fondo a perdite e soprattutto a ulteriori esborsi nel caso quelli iniziali non fossero sufficienti. Le banche potrebbero dover mettere ancora mano al portafogli, per investirli in una impresa con molte incognite, e altrettanto si troverebbe a fare la Cdp, che non potrà sottrarsi a sua volta di fare la sua parte (con i soldi del risparmio postale). Insomma, si sa da dove si parte ma non si sa dove si arriverà. E questo non piace ai mercati.

E non dovrebbe piacere neanche ai risparmiatori. Che si sa quanto poco vengono tenuti in conto, e che è meglio che restino in una beata semi-incoscienza. Di cosa? Del fatto che questo salvataggio è forse l'unico mezzo per evitare l'effetto Lehman-Vicenza, ma che mette l'intero sistema in un azzardo non piccolo. E se un insegnamento si può ricavare dalla cronaca di questi giorni, basta vedere come è stato gestito in Austria il primo bail-in di una banca, la Hypo Alpe Adria, poi Heta.

Lo mette in evidenza l'Aduc (associazione diritti utenti e consumatori), per bocca del suo responsabile tutela del risparmio, Giuseppe D'Orta. «Le difficoltà di Hypo Alpe Adria vengono da lontano. La banca era assai esposta nei mutui fondiari e nell'Est Europa. Una duplice concentrazione di rischio che il crack finanziario iniziato nel 2007 ha fatto emergere in maniera letale. Il 1 marzo dello scorso anno, davanti ad un buco di bilancio di circa 9 miliardi a fronte di debiti per 11 miliardi, il governo austriaco aveva deciso di non intervenire in salvataggio della banca a differenza di quanto fatto dalla regione Carinzia, che nella prima fase delle difficoltà ne aveva garantito il debito. La situazione era però precipitata rendendo impossibile l'eventuale intervento regionale, ed era intervenuto il Governo ma senza assumere tutte le garanzie della regione», racconta D'Orta. Il 10 aprile, la Financial Market Authority austriaca ha decretato la “risoluzione”. Il bail-in prevede: uno, l'azzeramento del debito subordinato; due, un taglio del 53,98 per cento del debito senior; tre, la proroga di tutte le scadenze di debito al 31 dicembre 2023 e la cancellazione di tutti gli interessi a partire dal 1 marzo 2015, data in cui Heta fu sottoposta al meccanismo di risoluzione.

Notato qualcosa? Che oltre al famoso debito subordinato, cancellato al 100 per cento, il bail-in ha tosato (ecco l'haircut) anche il debito senior, cioè quel debito che è sempre stato considerato sicuro e indenne dal rischio di essere coinvolto in caso di difficoltà di una banca. E l'ha tosato di oltre la metà. « Specie oggi che rendono pochissimo, le obbligazioni bancarie non ha davvero senso possederle», è il messaggio finale.

Alla luce di quanto riassunto sopra, forse è il caso di rifletterci seriamente.