Agli intellettuali non interessa più quello che succede nel mondo e nella politica. Sono diventati prudenti fino al conformismo. Con pochissime eccezioni. E un fumettista che fa meglio di loro

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Lui, a un certo punto, ci scherza su: «Però contate che ’sto libro magari finisce in mano a gente che di solito non mi legge e che è cascata nella trappola dell’argomento impegnato». Ma in “Kobane Calling”, appena pubblicato da Bao Publishing, prima ancora che l’argomento, conta lo sguardo: raccontando un suo doppio viaggio nel Kurdistan siriano (e perciò, come lui scrive, di qualcosa «che va oltre gli strettissimi cazzi miei»), il fumettista Zerocalcare chiama in causa l’ignoranza, i pregiudizi degli «sciacalli nostrani» (li disegna: Borghezio, Gasparri) e di tutti noi. La distanza e l’indifferenza che impediscono a quella «cosa che conosci benissimo. Che ti porti sempre dietro. Il cuore. Non uno qualsiasi. Il tuo - con i suoi bozzi, le sue cicatrici, le sue toppe» di battere per Kobane.
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Come tutti i suoi precedenti e come quel piccolo capolavoro che è “Dimentica il mio nome”, “Kobane Calling” fa ridere e fa piangere, senza ricattare mai chi legge; l’autore è antiretorico, smitizza sé stesso («Avoja a lavora’ su me stesso. Io sto come un cantiere della Metro C»), ma non per questo evita di prendere posizione. E una volta messo piede nella regione autonoma curda del Rojava, invita a guardare «le scelte loro e le nostre»: «Loro c’hanno la guerra in casa. Quella vera, a pochi chilometri. Eppure, anche in mezzo a ’sto macello, cercano sempre di aprire più spazi di partecipazione e di democrazia. Noi strumentalizziamo ogni morto per fare esattamente il contrario. Chiudere quegli spazi sempre di più». Raffigura «buona parte della nostra classe dirigente» dandole i tratti di un maiale che dice: «Facciamo vedere ai terroristi che non modifichiamo il nostro stile di vita per loro. Postiamo tutte foto di noi che ci baciamo in piazza, così vince l’amore la vita la mononucleosi. Intanto, però, mettiamo lo stato d’emergenza. Togliamo Schengen…».

Fa uno strano effetto leggere “Kobane Calling” accanto a “Tumulto” di Hans Magnus Enzensberger, appena uscito da Einaudi. Che c’entra un fumettista romano trentenne con uno scrittore tedesco ottantenne? La risposta sta nel titolo del vecchio Enzensberger, nella parola “tumulto”. Il libro raccoglie i suoi diari ritrovati degli anni Sessanta: un viaggio a Leningrado insieme a Sartre, De Beauvoir e Ungaretti, un soggiorno cubano, l’impegno pubblico negli anni del grande tumulto individuale e collettivo. Quelle esperienze, dice Enzensberger, «sono sepolte sotto il mucchio di letame dei media, del materiale d’archivio, dei dibattiti, della schematizzazione da vecchi militanti», ma lui non vuole dimenticare «quanto rumore faceva il tumulto». E d’altra parte, «vecchio mio, sai bene quanto me che il tumulto non finisce mai. Semplicemente ha luogo da qualche altra parte, a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva».

Già, è solo una questione di prospettiva. Enzensberger non prende sul serio fino in fondo le proprie stesse pose da intellettuale engagé, anzi, interroga il trentenne che è stato, lo provoca: perché eravamo così fissati con la guerra del Vietnam? E d’altra parte, però, lascia intendere che - al netto degli eccessi, di un radicalismo pericolosamente privo di misericordia - essere scrittore, per lui, è stato anche questo. Una questione, sì, di partecipazione. La voglia di capire, di vedere, di prendere posizione, di provocare indignazione, e magari - perché no? - di «sbalordire e far imbestialire la società», senza uccidere nessuno.

Abbiamo archiviato con disinvoltura, perfino con sollievo, la stagione della militanza intellettuale. Seguitando a incensare Pasolini a ogni festa comandata, abbiamo convinto noi stessi che bisognava guarire dalla febbre degli interventi a gamba tesa nel dibattito civile, degli appelli, dei j’accuse. Se gli anni del riflusso ci hanno addormentato, quelli successivi ci hanno sorpreso in letargo.

E così, è bastato un sorrisetto di scherno per chiudere in cantina i proclami di Sartre e il fumo della sua pipa, Moravia, i suoi sgargianti maglioni girocollo, le sue ossessioni sull’inverno nucleare. Era - ci è parso - perfino caricaturale quel piglio da tribuni salottieri, quell’ansia di mettere firme, di dire la propria: autorizzati da chi? Mentre avanzava l’epoca dell’ironia - su tutto, a tutti i costi - e la parola “intellettuale” entrava nel lessico degli insulti, si consolidava la tesi dello scrittore tenuto a impegnarsi solo scrivendo romanzi. Qualcosa, lungo il ventennio berlusconiano, si è mosso, ma in una sola direzione: Antonio Tabucchi incassava querele da Ferrara e da Schifani, Franco Cordelli da Previti. Poi, più niente. All’uscita dal tunnel, è bastata un’alzata di spalle a liquidare un’intera stagione: nelle pagine di “Il desiderio di essere come tutti”, Francesco Piccolo ha messo in ridicolo l’accanimento e il malumore della sinistra tra il 1994 e il 2011, come un gioco di società tutto sommato inutile. Ha polverizzato con un’esclamazione - «E che sarà mai!» - gli ultimi lampi di conflitto, di tumulto.
Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. All’indomani della morte di Tabucchi, un orrendo titolo del “Corriere della Sera” imbrigliava l’inquieto autore di “Sostiene Pereira” nella categoria di «antiberlusconiano che scelse l’esilio». Che tristezza! Curioso che poi, se decidono di intervistare uno come David Grossman, gli chiedono conto della sua insofferenza per Netanyahu.

C’è qualcosa che non va in un Paese che rimpiange gli scrittori impegnati del passato, celebra quelli stranieri se prendono posizione, e costringe i propri contemporanei a tacere. Più per paura di essere presi in giro che per eccesso di prudenza. L’argine a ogni slancio politico, buono per tutte le stagioni, è quello usato da un ministro per frenare un intervento di Saviano sul caso Boschi: Saviano parli di mafia, ovvero di ciò che sa. Tradotto: è uno scrittore, si occupi d’altro, non emetta «sentenze senza fondamento». Eppure, quante lacrime di coccodrillo versate sull’«io so» pasoliniano! Peccato che a quell’«io so» facessero seguito un’avversativa e una causale piuttosto eloquenti. Io so ma non ho le prove. Io so perché sono uno scrittore.

Quei pochi che ancora azzardano prese di posizione nette - e ovviamente discutibili - come Erri De Luca o Michela Murgia sono spesso guardati con diffidenza. Perché De Luca parla di Tav? Perché parla di trivelle? Uno scrittore che scelga di dire la propria, non è detto che lo faccia da cittadino più intelligente o più esperto, non necessariamente: da cittadino più attrezzati di parole, semmai, e mosso - si suppone - da autentica passione civile. Riusciamo ancora ad accettarlo? Può prendere cantonate, pronunciare enormi sciocchezze: come tutti. Ma a cosa sarebbe ridotta la storia della letteratura se venisse applicata sistematicamente la categoria di «sentenze senza fondamento»? Buttiamo all’aria tutto Brecht e l’intera opera dell’ultimo premio Nobel, Svetlana Aleksievic? La «guerra contro i cliché», come la chiama Martin Amis, si combatte anche a suon di provocazioni, di frasi grosse, di domande irritanti e radicali. Si combatte anche a furia di iperboli: se Mario Vargas Llosa definisce Donald Trump un clown, sta esagerando. Ma non è detto che sia inutile. E se gli avversari lo definiscono (negli Stati Uniti, ma anche sull’italianissimo “il Giornale”) «intellettuale che rosica», è segno che comunque ha toccato qualche nervo scoperto. La battaglia contro i conformismi si combatte anche a furia di libri sbagliati, o brutti su un piano estetico: “Sottomissione” di Houellebecq disturba, come ogni sua pagina, ma scuote. D’altra parte, mentre i cugini francesi portano in prima serata Boualem Sansal, autore di “2084”, a parlare di islamismo radicale, noi confiniamo gli scrittori ai talk show promozionali.

Il paese di Dante e di Belli è diventato allergico alle invettive. Le accetta solo se hanno valore retroattivo, solo sull’onda del «come eravamo». La Resistenza. Settant’anni fa. Il delitto del Circeo. Quarant’anni fa. Fa impressione ripescare dagli archivi il dialogo infuocato tra Pasolini e Calvino nell’autunno 1975. È il 30 ottobre, Pasolini muore tre giorni dopo. Si rivolge così a Calvino: «Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira».

Ma perché questo?
Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive... Ma perché questo?». Ripete sei volte lo stesso interrogativo: «Ma perché questo?». Provoca il collega, lo incalza: «Tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia».
C’è qualcosa di esemplare - al di là del merito - in questo corpo a corpo tra scrittori, in questa sfida reciproca alla responsabilità, alla discussione. In questo - posso dirlo? - prendere sul serio gli eventi, la realtà. Non c’era niente da ridere. Non c’è niente da ridere. O quantomeno, non c’è solo da ridere.

Ve lo immaginate Pasolini che ghigna da un profilo Facebook? Sciascia che fa il battutista brillante su Twitter? Verrebbe da concludere che, se gli scrittori sono stati marginalizzati sulla scena pubblica, un po’ l’hanno voluto. Cercando di competere con Crozza o con Spinoza.it, piantati su un terreno che non è il loro; temendo di apparire “pesanti”, hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore.

Qualche eccezione c’è, e di solito non appartiene alla generazione dei padri. A quella dei figli cresciuti, come Alessandro Leogrande, Christian Raimo, Igiaba Scego. Se Nicola Lagioia si occupa con intelligenza del delitto Varani, c’è chi fa la ola, ma non dovrebbe essere una rarità. E poi c’è la generazione dei nonni come Enzensberger, e come il sempre troppo inascoltato Busi. «E allora, che sarà mai», scrive in “L’altra mammella delle vacche amiche”, «se rinunci a un po’ del tuo piccolo dolore per te sostituendolo con il dolore più grande degli altri che vuoi che restino dall’altra parte, quella irraggiungibile dalla tua retina ma non dal tuo cuore, quella invisibile per la comodità della tua vecchia antropologia egocentrica che non vede mai alcun futuro se non il suo presente stretto alle sue sole viscere?».

Ecco, ancora il cuore chiamato in causa da Zerocalcare. Il quale, come Busi, si sforza di non somigliare a quelli che nei sondaggi riempiono la percentuale del «non sa, non risponde». Dove siamo tutti? Alle prudenze dei cortigiani e dei reggimicrofono, si sommano i nostri silenzi di simpatici e inoffensivi cantastorie. E nessuno prova più nemmeno a scuotere la cappa di conformismo che ci sta uccidendo.