Mondo
maggio, 2016

Europa addio, ecco perché gli inglesi non l'hanno mai amata

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Viaggio nella pancia del Paese favorevole all'uscita dalla Ue, che sogna il ritorno all’isolamento in nome della gloria dell’Impero. Ma le cifre dicono il contrario: l’adesione alla Cee nel 1973 ha dato prosperità e sviluppo

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Il vento sferza il volto, una folata alla volta. La spiaggia, fredda e umida, è al di là della strada, qualche passo dal pub in legno scuro. Le bandiere dell’unione inglese, croci rosse su sfondo blu, dominano il lungo mare. Il cielo, basso e rigato di grigio, s’infrange contro le onde cerulee. Il sole, sbiadito, è rannicchiato in fondo a un tunnel di nuvole. Improvvisamente un galeone di legno, con i suoi cannoni di ferro e i sacchi di spezie orientali, sembra apparire all’orizzonte.

È un istante. Poi la mente si riprende e lo sguardo si ritrae, accorciandosi. Si appoggia su un lembo di giardino oltre la staccionata del pub. È affollato di vita inanimata: cannoncini di ferro alternati a nanetti variopinti, busti in gesso di generali in doppio petto blu, ciotole di fiori fucsia intorno a una bandiera di San Giorgio, croce rossa su campo bianco, un tempo vessillo dei Crociati, oggi simbolo dell’Inghilterra.

Clacton-on-Sea, questo paesino affacciato sulla costa sudorientale dell’isola, è la quarta città più euroscettica del Paese, uno dei bastioni di quella “Piccola Inghilterra”, fiera, indipendente e dominatrice, che metà della popolazione inglese vuole vedere risorgere con l’uscita dall’Unione Europea e la rottura dei laccioli della burocrazia di Bruxelles. La “chance di una vita”, come la chiamano da queste parti, sarà il referendum sullo “stare” o “uscire” dall’Europa convocato contro voglia dal primo ministro conservatore David Cameron il prossimo 23 giugno. «Abbiamo commerciato ben prima dell’esistenza dell’Unione Europea e abbiamo governato il mondo», tuona Bill Floyd, 84 anni, ex marinaio della flotta reale: «Questa è un’opportunità che non avremo mai più di riprenderci la sovranità e farci le nostre leggi».

Come Floyd la pensa circa il 43 per cento della popolazione, tra cui la maggioranza degli inglesi al di sopra dei 55 anni in ogni classe sociale, per i quali il mondo in questi quarant’anni è cambiato troppo velocemente e non per il meglio. Per loro lo status quo è quello degli anni Sessanta, prima della fine dell’Impero, della crisi della sterlina, della globalizzazione della finanza, dell’avvento di Internet e delle grandi migrazioni. «La Brexit è una questione di pancia, non di testa», aveva sottolineato il giorno prima Andrew Hilton, direttore del Centro per lo studio dell’innovazione finanziaria, un think-tank annidato tra i negozi in legno rosso dell’antico mercato della carne di Leadenhall, nella City.
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Ma i vecchi nostalgici non sono i soli a volersi liberare di Bruxelles. C’è anche chi non è andato oltre la scuola dell’obbligo e che, a differenza che in passato, quando la classe lavoratrice era l’orgoglio della nazione, non trova posto in un’economia sempre meno tangibile, dove la finanza detta le regole e attrae i capitali, esasperando la distanza tra i pochi ricchi e i tanti poveri che vivono di sussidi statali. Allora l’Europa diventa un vortice nero che sottrae agli inglesi risorse proprie che, altrimenti usate, potrebbero migliorare il servizio sanitario gratuito e la costruzione di case pubbliche ai margini di una Londra bella e impossibile, dopo cinque anni di crescita dei prezzi. Spiega Douglas Carswell, l’unico candidato dell’Ukip, il partito per l’indipendenza della Gran Bretagna: «L’Unione è stata fatta da e per una classe di persone che con lei si arricchisce. È un progetto degli anni 50 che si è rivelato un disastro nel 21esimo secolo. Non legheremo il nostro futuro a un gruppo di nazioni perdenti».

A stare ai numeri, perdente era la Gran Bretagna quando nel 1973 si unì alla Comunità economica europea, con un prodotto interno lordo ben al di sotto della media europea. Quell’ingresso fu la sua fortuna. Oggi è la quinta economia mondiale e il cuore finanziario d’Europa. Circa tre milioni e mezzo di posti di lavoro, uno ogni 10, sono legati direttamente alle esportazioni verso l’Europa, il 43 per cento del totale britannico. Poi c’è tutto l’indotto. Gli Stati Uniti e i Paesi del vecchio Commonwealth investono in Gran Bretagna perché la considerano il portone d’ingresso al mercato unico, il più grande al mondo, e paventano una sua fuoriuscita. L’Unione Europea ha stretto negli anni ben 58 accordi commerciali con Paesi o raggruppamenti di Paesi: ora Londra dovrebbe rinegoziarli da sola, con un peso specifico infinitamente minore.

L’Europa ha portato in tribunale multinazionali come Microsoft e Samsung per competizione sleale, un obiettivo difficilmente raggiungibile da un’unica nazione. «Il problema è che negli ultimi 40 anni i media hanno diffuso l’idea che la Gran Bretagna sia sotto il giogo di avidi burocrati stranieri», racconta Karim Sajjad, un parlamentare conservatore di origine pakistana che rappresenta il nordovest del Paese e si sta battendo affinché l’Isola rimanga in Europa: «Non hanno mai informato i cittadini né sul funzionamento dell’Unione né su quali traguardi il Paese ha raggiunto grazie all’Europa».

Il treno da Londra ci impiega meno di due ore per arrivare a Clacton-on-Sea ma è come se avesse fatto un lungo viaggio a ritroso nel tempo. Dalla stazioncina al molo sono solo pochi passi tra passeggini e sedie a rotelle elettriche. Per strada ci sono pensionati, bambini in età prescolare e cani al guinzaglio. Pochi i volti forestieri. Molte le giostre e le slot machines. Prima dell’esplosione dei viaggi low-cost nell’assolato Mediterraneo Clacton era meta di vacanze per i londinesi della classe media. Poi le giostre arrugginirono e i bungalow marcirono. «Siamo lontani da Londra, figuriamoci da Bruxelles», spiega Neil Stock, il leader del Consiglio della regione di Tendril, di cui Clacton fa parte, nel suo completo grigio con cravatta, camicia e calzini viola: «La gente non vede nessun vantaggio nello stare in Europa. Al contrario, pensa che se uscissimo potremmo recuperare potere e democrazia e fermare l’immigrazione di massa». Dopo la nostalgia per l’Impero, la libera circolazione delle persone è il secondo motivo per cui tanti rigettano l’Unione. Non solo a Clacton.

Sul marciapiede della stazione di Peterborough, il capoluogo del polmone agricolo dell’Inghilterra, Debbie Clark, capelli tinti biondo platino, doppio strato di fondotinta e rossetto rosso, gesticola in direzione di Frances Fox che, sull’altro lato della strada, distribuisce volantini. Fox è una consigliera comunale di 87 anni. Sul risvolto della sua giacca verde acqua è appuntata una coccarda viola, il colore dell’Ukip, il partito anti-establishment, nato e cresciuto sulla lotta all’Europa. «Forza Frances, continua così e vinceremo!». Intorno a Clark si forma una claque di uomini che ne sostengono le ragioni. Lei non si fa pregare: «Ho la sclerosi multipla a causa degli immigrati dell’Est. Non sono come noi. Per colpa loro ho dovuto vendere casa mia dove vivevo da 19 anni e cambiare quartiere. Sputano per terra, ascoltano musica fino a tardi e pretendono gli stessi sussidi degli inglesi».

Peterborough, 200 mila anime, è la città britannica con il maggior numero di abitanti favorevoli ad un’uscita dall’Unione Europea. Non a caso è anche la città con il più alto tasso di crescita della popolazione. Qui c’è lavoro. Situata a soli tre quarti d’ora d’auto da Londra ma molto meno costosa, storicamente meta degli italiani emigranti del Dopoguerra che lavoravano nelle fucine di mattoni, è diventata una delle basi logistiche chiave di colossi come Amazon e Ikea: una Mecca per chi cerca un’occupazione non specializzata, anche mal remunerata. Pochi gli inglesi: «Con quei soldi è impossibile pagare l’affitto», ripetono; i giovani lituani, invece, ci stanno e come loro polacchi, lettoni, portoghesi, che, sette per stanza, offrono ai locali la stessa immagine che noi italiani abbiamo dei cinesi.

«Dall’Europa arrivano immigrati in continuazione», lamenta Jay Beecher, 27 anni, candidato alle elezioni comunali per l’Ukip: «Non si integrano, non accettano che la bandiera inglese sia issata sul tetto del municipio, vorrebbero quella europea, affollano case e ospedali. Se usciremo non avranno più un canale preferenziale rispetto agli immigrati del Commonwealth e noi potremo scegliere chi fare entrare, esattamente come fa ora l’Australia». Mentre parla, seduto ad un fast food inglese della piazza principale, all’ombra di una delle più belle cattedrali gotiche inglesi, si avvicina un’amica di famiglia: «Jay, è vero che ci sarà meno fila dal dottore se usciremo?»

A mezzogiorno nella City le file sono di ben altra natura. Ragazzi ventenni, uomini quarantenni in giacca e cravatta, senza giaccone, nonostante il vento, aspettano il proprio turno per comprare un burrito, un panino, un biryani, un roll vietnamita. L’Europa è data per scontata, gli immigrati si chiamano espatriati. Sono l’altra Inghilterra: non solo Londra ma anche Oxford e Cambridge, Bristol e Brighton. Competizione e opportunità. L’Inghilterra che tutti gli europei conoscono e troppo pochi inglesi riconoscono. «L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa sarebbe un disastro economico», spiega Mark Boleat, il presidente del Comitato per le politiche e le risorse della città di Londra, nel suo ufficio nel cuore della City. Racconta di una cena con diversi banchieri a cui ha partecipato la sera precedente e spiega che sono tutti d’accordo: «L’entità del danno dipenderà dal tipo di accordo commerciale che Londra riuscirà a fare con Bruxelles, ci sono diversi scenari. Ma intanto sono due mesi che gli investimenti nella City sono bloccati dall’incertezza. Nessuno rinnova i contratti di affitto e le banche, che quest’anno dovranno tagliare i dipendenti complessivi di almeno un terzo, stanno aspettando: ridurre Londra o Parigi? Londra o Francoforte? Se uscissimo la risposta sarebbe ovvia».

Oltre alle conseguenze economiche il Regno rischierebbe un terremoto politico. «Cameron si dovrebbe dimettere, i conservatori dividere, riemergerebbero le tensioni con l’Irlanda e gli scozzesi stavolta se ne andrebbero davvero», continua Boleat: «La Brexit non risparmierebbe nemmeno l’Europa che perderebbe il contributo inglese nella formulazione delle politiche comuni e vedrebbe altri Stati membri tentati dall’allontanamento». L’ironia del caso è che il referendum arriva proprio quando l’Europa, assediata dall’esterno e infiacchita all’interno, abbandonato il sogno politico di Jaques Delors, sta adottando nientemeno che il modello britannico di adesione all’Unione, con lo smantellamento parziale del trattato di Schengen. Ma se la Brexit divenisse realtà, allora sarebbe forzata a scegliere tra la disintegrazione, a forza di concessioni alle singole nazioni, e l’imposizione di legislazioni nettamente diverse per gli Stati che sono dentro e quelli che sono fuori. Con il risultato che l’Inghilterra, tra orgoglio e pregiudizio, potrebbe trovarsi nettamente fuori. Al pari delle sue ex colonie.

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