Più 13,6 per cento di visitatori e più 24 per cento di incassi nei primi mesi  del 2016. E un miliardo di fondi in arrivo dallo Stato. Ma in molti, associazioni, archeologi e storici, contestano la riforma Franceschini: stanno trasformando le gallerie in supermarket

Come piace il museo pop, ma c'è chi dice no

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Visitatori in aumento e dure critiche da parte di archeologi, storici dell’arte e autorità in materia come il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci. Una riforma del sistema museale da interpretare per la prima volta, e un sostanzioso numero di associazioni contro, a partire da Italia Nostra. E la rivoluzione copernicana di un drappello di nuovi direttori decisi a porre al centro il visitatore, frenata da burocrazia e mancanza di personale.

A nove mesi dalla riforma voluta dal ministro Dario Franceschini, con la quale sono stati nominati i venti direttori dei principali musei italiani, il mondo dell’arte è in fermento. Intanto, piovono soldi: il primo maggio il Cipe ha approvato il piano di finanziamenti per la cultura, stanziando un miliardo di euro per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Tra i 34 interventi previsti, 40 milioni andranno agli Uffizi, altrettanti alla Pinacoteca di Brera e alla Reggia di Caserta. Una cascata di denaro pubblico, all’indomani di due riaperture importanti: a Reggio Calabria il Museo archeologico nazionale, con i Bronzi di Riace; a Pompei la Villa imperiale e l’Antiquarium.

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Il cospicuo stanziamento del governo Renzi è l’occasione non solo per tracciare un primo bilancio dell’attività dei nuovi direttori, ma anche per riflettere sulla riorganizzazione del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact): avviata a fine 2014, la riforma ha separato le soprintendenze dai musei, attribuendo a questi ultimi autonomia di bilancio, un consiglio di amministrazione e un comitato scientifico. In sostanza, Franceschini ha esortato i musei a fare cassa. E i numeri, finora, gli danno ragione: nei primi tre mesi del 2016 i visitatori dei musei e dei siti archeologici statali sono aumentati del 13,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015, attestandosi a quasi 7,9 milioni, mentre gli introiti sono cresciuti del 24 per cento, a oltre 25,4 milioni di euro. «L’Italia si è finalmente allineata agli standard internazionali previsti per i musei», commenta con “l’Espresso” il ministro Franceschini: «Prima della riforma del 2014 i musei statali, anche i più importanti, erano meri uffici delle soprintendenze. Ora hanno autonomia, statuto, bilancio, consiglio di amministrazione e comitato scientifico. Sono tutti elementi essenziali per la vita di un museo che, anche se può sembrare assurdo, l’Italia ha introdotto per i musei dello Stato solo da un anno».

Mentre la riforma entra nella seconda fase, con la nascita di una soprintendenza unica per Archeologia, Belle Arti e Paesaggio (39 sparse per la Penisola, più le due speciali di Colosseo e Pompei); con l’annuncio di 10 nuovi musei autonomi e l’imminente pubblicazione del bando per 500 nuovi funzionari, il fronte dei contrari scenderà in piazza sabato 7 maggio a Roma, con lo slogan “Emergenza cultura: difendiamo l’art. 9”. Hanno aderito in tanti, dall’archeologo Salvatore Settis all’ex ministro Massimo Bray, all’iniziativa lanciata dallo storico dell’arte Tomaso Montanari, caustico sul recente miliardo alla cultura: «Moltissimi soldi per i supermusei avviati alla trasformazione in supermarket», scrive nel suo blog.

Sotto accusa è la separazione tra tutela e valorizzazione, tra musei e soprintendenze. «Manifesteremo anche contro la legge Madia che inquadra le soprintendenze nelle prefetture, sottomettendole all’esecutivo», dice Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza, giornalista e scrittore (è in uscita per Marsilio il suo libro “Cinquantottini”): «Secondo la riforma, i 20 musei autonomi dovranno rendere soldi. Ma è una sciocchezza. Renzi e Franceschini ignorano che la enorme macchina del Louvre costa 204 milioni di euro all’anno e lo Stato francese gli deve versare 102 milioni per ripianare il passivo. Perfino il Metropolitan Museum di New York è coperto per metà da denaro pubblico. Il vero business non sono i musei ma il turismo: hotel, ristoranti, trasporti. Bisogna puntare sull’accoglienza».

GUERRA ALLE CODE A FIRENZE

«Per me il visitatore è al centro di tutto, come nei musei di Londra, di Parigi o in quelli americani», interviene Eike Schmidt, 47 anni, da sei mesi direttore delle Gallerie degli Uffizi, a Firenze: con quasi 2 milioni di ingressi nel 2015, il museo italiano più visitato. Tedesco, arrivato dal Minneapolis Institute of Arts,Schmidt incarna quel modo nuovo di concepire il museo auspicato da Franceschini. «Le polemiche sulla mia nomina perché straniero? Credo che per i fiorentini sarebbe stata una tragedia più grande se fosse arrivato un pisano o un senese», scherza. Da direttore dei musei “di qua e di là d’Arno”, vale a dire della Galleria degli Uffizi ma anche di tutti i musei di Pitti, Schmidt ha avviato varie collaborazioni: anzitutto proprio con Pitti Immagine, per ricollegare i luoghi dove la grande moda moderna è nata, e sviluppare un Museo della moda dall’attuale Galleria del costume. E per riportare la musica a Palazzo Pitti, luogo delle prime opere liriche.

Ma i problemi, agli Uffizi, sono antichi. Primo fra tutti, quello delle code: «Grazie alle nuove tecnologie, che daranno i primi risultati la prossima estate, potremo razionalizzare i flussi, ma anche valorizzare opere esposte in luoghi diversi», prosegue il direttore, che ha già preso la decisione di aprire al pubblico il Corridoio Vasariano, e non riservarlo più solo a una visione su prenotazione. «La riapertura va accompagnata da nuovi servizi; occorre far rivivere gli spazi oltre l’Arno, dove c’è una terrazza mozzafiato. Serve anche un ristorante, dove la gente possa fermarsi dopo un percorso di oltre un chilometro». Nel frattempo, il progetto Grandi Uffizi va avanti, anche grazie ai 18 milioni di euro ricevuti nel 2015. «Dopo l’estate apriremo la Sala Botticelli e nuovi spazi espositivi», annuncia Schmidt, che non teme la burocrazia. «Ho trovato una situazione peggiore in California, al Getty Museum: non è un problema solo italiano».
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Ma la parola “burocrazia” aleggia come uno spettro ricorrente. La evoca Cecilie Hollberg, 48 anni, la direttrice della Galleria dell’Accademia di Firenze, famosa per il David di Michelangelo, primo museo al mondo per densità di visitatori: un milione e 400 mila nel 2015, con un incremento del 6 per cento nei primi tre mesi del 2016. «Ho tante idee per valorizzare la Galleria, a partire dalla collezione di strumenti musicali, alla quale dedicherò un convegno e un concerto con strumenti gotici, ma devo limitarmi all’essenziale, e cominciare a riparare il tetto da cui entra l’acqua», dice. Storica dell’arte, manager culturale, la direttrice non nasconde le difficoltà: «Bisogna costruire una struttura che oggi non c’è: siamo sotto organico del 40 per cento, ma il paradosso è che se arrivassero persone nuove non saprei dove metterle. Questa è una macchina - straordinaria, autorevole, preziosa- ma senza motore: io voglio trovarlo, anche di seconda mano, purché funzioni».

UN FRANCESE A NAPOLI

A ignorare le difficoltà, e a guardare i soli primi risultati, nella grande maggioranza dei casi la riforma Franceschini sembra funzionare. In Campania, i quattro super musei (Reggia di Caserta, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Museo di Capodimonte, Parco Archeologico di Paestum) sono sempre più frequentati dai turisti italiani e stranieri. E i neodirettori vanno avanti per la loro strada nonostante le critiche. Affacciato al balcone della Reggia di Capodimonte, Sylvain Bellenger è ammaliato dal panorama da cartolina: in primo piano le cupole antiche di Napoli, più lontano il mare increspato, all’orizzonte la sagoma scolpita di Capri. «La spianata davanti alla Reggia fatta costruire da Carlo di Borbone è una delle massime espressioni del vedutismo napoletano del Settecento, il sito fu scelto per questo motivo», spiega lo storico dell’arte, francese, 60 anni, direttore del Museo di Capodimonte, che custodisce nelle sue 127 gallerie capolavori di epoche diverse: la “Crocifissione” di Masaccio (1426), la “Trasfigurazione di Cristo” (1478-1479) di Giovanni Bellini, dipinti di Tiziano e Caravaggio, fino alla collezione contemporanea - oggi chiusa al pubblico per carenza di personale - con opere di LeWitt, Kiefer, Warhol.

Per ripristinare la spettacolare veduta originaria, Bellenger ha fatto tagliare i grandi cespugli che ostruivano la vista sul Golfo di Napoli, mandando su tutte le furie il comitato di cittadini “Giù le mani dal bosco”, che hanno denunciato la “potatura killer” in diversi sit-in di protesta nel parco, il gioiello botanico di 140 ettari protetto dall’Unesco.
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Nel 2015 hanno visitato il Museo di Capodimonte 150 mila persone, davvero poche se si considera l’importanza dei quadri esposti. «Finora il museo era tagliato fuori da tutto. Sappiamo che al porto arrivano più di 10 mila persone al giorno. Dove vanno? Uno scempio se si pensa che il bosco potrebbe essere insieme Central Park e una super Villa Medici», continua Bellenger mentre attraversa le sale della Reggia, molte delle quali aperte al pubblico solo per quattro visite guidate al giorno. Per uscire dall’isolamento, il direttore ha inaugurato una navetta gratuita in vari punti della città; sta mettendo a punto un progetto con Costa Crociere per portare i turisti che approdano a Napoli. Ha tante idee, e non si rassegna neanche al rombo degli aerei diretti a Capodichino che sorvolano il bosco e la Reggia. «Passano 200 metri sopra le nostre teste, le vibrazioni danneggiano quadri e porcellane. È scandaloso!», incalza, e per convincere i dirigenti dell’aeroporto a cambiare rotta ha trascorso una intera giornata con loro nella torre di controllo.

Sono più terrene le sfide che attendono Paolo Giulierini, 47 anni, direttore dell’altro grande polo culturale napoletano: il Museo Archeologico Nazionale (Mann). È lunga la strada per l’archeologo toscano, che punta a rilanciare l’immagine del museo, anche con mostre che fanno storcere il naso ai puristi: è il caso di “Giorni di un futuro passato” (fino al 6 giugno) di Adrian Tranquilli a cura di Eugenio Viola, che rielabora il mito e mescola i supereroi contemporanei della Marvel con le sculture classiche: Spiderman e l’Ercole Farnese, il maestro Yoda di “Star Wars” e il busto dell’imperatore Claudio. «Questa mostra sta riscuotendo un notevole successo e attira un pubblico nuovo», ribatte Giulierini accanto alle tre statue di Batman in resina bianca che richiamano il marmo delle sculture classiche e campeggiano nei giardini storici, risistemati e riaperti al pubblico in occasione della mostra “Mito e natura - Dalla Grecia a Pompei” (fino al 30 settembre). «Finora i rapporti con Pompei erano sporadici, finalmente ora la collaborazione è alla pari. Insieme abbiamo diverse mostre in corso, dal Giappone agli Stati Uniti, che consentono di fare cassa garantendo la sostenibilità economica del museo», aggiunge il direttore. Che ha un cronoprogramma ambizioso: riaprire ogni anno una sezione oggi inagibile del museo.

A cominciare dalle sale dei culti orientali, il 28 giugno, in occasione della mostra “Egitto Pompei”; il 7 ottobre toccherà alla sezione egizia; nel 2017 riaprirà la sezione Magna Grecia e nei due anni successivi le sale pompeiane e l’ala nuova del Mann, che ospiterà l’auditorium e il ristorante di uno chef stellato. Per il momento, i gourmet devono accontentarsi del cappuccino al distributore automatico. Entro l’anno verrà allestita una caffetteria temporanea.

Il tema dell’accoglienza è caro anche a Peter Assmann, direttore del Palazzo Ducale di Mantova, capitale della cultura 2016: «Sono necessarie indicazioni, punti informativi, bookshop più attrezzati, bar e in generale più chiarezza», dice lo storico dell’arte austriaco: «L’obiettivo è creare una realtà di livello internazionale dal punto di vista della fruizione turistica, della didattica, dell’interesse scientifico. Condivido la strada indicata dal ministro, ma ci vorrà tempo. Ci sono due ostacoli: la mancanza di soldi e di personale. I soldi sono in arrivo. Il personale, invece, fatica a gestire questo museo come un ente economico».

Al contrario, Assmann esalta il ruolo delle associazioni che sul territorio contribuiscono a collegare la Reggia alla città. «La recente mostra di Patrick Moya è stata realizzata da un’associazione che ha praticamente fatto tutto da sola e ha portato a Mantova 12 mila visitatori», aggiunge. Ben tredici i nuovi progetti per il complesso museale del Palazzo ducale: mentre già sono avviati i preparativi per una grande mostra dedicata ad Albert Dürer, e nell’appartamento che fu di Federico II, figlio di Isabella d’Este, si lavora a un programma di residenze per artisti, con l’intervento di sponsor privati. Ma è sulla valorizzazione dei 35mila metri quadrati di gallerie e giardini principeschi che si gioca l’impegno del direttore: «Deve cambiare l’idea stessa di visita del Palazzo, con ingressi preceduti da video e presentazioni degli affreschi».

STAFF RIDOTTO ALL’OSSO

Spesso tra i grandi progetti e la realtà c’è di mezzo un abisso di lungaggini burocratiche e deficit di comunicazione: gli addetti stampa dei 20 super musei si contano sulle dita di una mano; a Mantova, capitale 2016 della Cultura, manca del tutto. Alla Galleria Borghese lo staff è composto da sole cinque persone inclusa Anna Coliva, 62 anni, l’unico direttore confermato nel 2015 dalla commissione ministeriale presieduta da Paolo Baratta. Eppure il museo romano è una corazzata da 506 mila ingressi all’anno e incassi per più di 3 milioni e 300mila euro. «Condivido lo spirito della riforma, ha impresso un’energia nuova alla gestione. Tuttavia, quando si è tagliato il cordone ombelicale tra soprintendenze e musei si doveva prevedere il passaggio di un numero adeguato di risorse umane», sottolinea la direttrice, di recente protagonista di una piccola gaffe diplomatica con l’ex coppia reale del Belgio, Paola di Liegi e Alberto, in visita nella capitale e appassionati di Tiziano, Bellini, Bernini e di Canova. Ad accoglierli alla Galleria Borghese non c’era nessuno.

«Mi rincresce molto, me ne rendo conto. In passato li ho sempre accompagnati, ma quel giorno ero sola in ufficio», replica la direttrice, che ha in mente di modificare il sistema di accesso del pubblico al museo. Adesso è a numero chiuso: possono entrare fino a 360 persone alla volta e la visita dura al massimo due ore. «Con le nuove tecnologie è possibile fluidificare i flussi, evitando di scaglionare gli accessi».

L’Italia, comunque, continua ad attirare visitatori, mentre il turismo culturale si rafforza: secondo l’ultimo rapporto Ciset-Banca d’Italia, nel 2015 i viaggiatori internazionali hanno speso per la cultura in Italia 13,9 miliardi di euro, con un aumento del 2,6 per cento rispetto all’anno precedente. Tra le regioni che se la cavano meglio c’è il Veneto: dati che si riflettono sull’affluenza alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, il complesso monumentale che ospita la più importante collezione di arte veneta al mondo, dal Trecento bizantino e gotico agli artisti del Rinascimento: Tintoretto, Tiziano, Tiepolo.

Ora è in corso la retrospettiva su Aldo Manuzio (fino al 19 giugno), l’editore che all’inizio del Cinquecento inventò il libro moderno. «I punti di forza del mio programma? Migliorare l’accoglienza del pubblico e potenziare il ruolo internazionale del museo, negli ultimi anni affievolito», afferma la direttrice Paola Marini, 64 anni, che punta a stringere collaborazioni con il Getty Museum di Los Angeles, la National Gallery di Londra. Nel frattempo, la storica dell’arte nei prossimi tre anni dovrà convivere con il cantiere al primo piano e far quadrare i conti delle Gallerie. I ricavi provengono da biglietti, sponsorizzazioni, affitti degli spazi, mostre all’estero. Anche se la direttrice, in tema di prestiti di opere, come la maggior parte dei suoi colleghi è cauta: «Bisogna promuovere la collezione e sviluppare progetti con altri musei, non svuotare la galleria in cambio di denaro».

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