Campagne elettorali minimaliste. Oscurate ?dalla propaganda del governo sul referendum costituzionale. E si rischia l’astensione di massa
Il “partito dei sindaci” è un ricordo sbiadito, lontano. 1993, ultimo anno della prima repubblica. Rutelli a Roma, Cacciari a Venezia, Bassolino a Napoli, Formentini a Milano. Storie politiche e profili culturali diversi. Comune l’orgoglio di dare una rappresentanza all’Italia delle cento città, il meglio della nostra tradizione civica, mentre un sistema nazionale stava collassando. Lo spirito del ’93 ha resistito per circa un decennio, un misto di buone pratiche, risanamento urbano, servizi più efficienti, valorizzazione delle identità culturali delle plurime capitali italiane. Federalismo praticato, più che predicato. Dal Nord al Sud.
Grazie alla legge che introdusse l’elezione diretta dei sindaci, la politica si è personalizzata nella figura del leader, consacrata dal consenso popolare. Quel sistema elettorale, nonostante siano trascorsi più di vent’anni, resta il più efficiente (o il meno peggio) tra i tanti modelli di selezione della rappresentanza politica adottati in questi anni. Non è un caso se oggi Palazzo Chigi sia occupato dall’ex sindaco di Firenze. La visibilità ottenuta con il ruolo di primo cittadino, insieme alla scalata ai vertici di un Pd uscito a pezzi dalle elezioni del 2013, quelle della “non vittoria”, hanno consentito a Matteo Renzi di raggiungere un traguardo mai raggiunto da altri. Walter Veltroni, fortunato sindaco di Roma e fondatore del Pd “nuovo”, uscì sconfitto nel 2008 nello scontro con Silvio Berlusconi. E ha scelto di fare il sindaco di Torino (dove si candida per il secondo mandato) Piero Fassino, dopo essere stato il segretario nazionale dei Ds.
La stagione dei sindaci tuttavia è definitivamente tramontata. Lo era già da tempo, ma è ancor più evidente in questa tornata elettorale di giugno. Il primo a declassare le elezioni nelle grandi città è stato proprio Renzi. Per opportunismo tattico. In tutte queste settimane ha sempre insistito nel dire che il voto non riguarda il suo governo, ma è limitato alla scelta dei primi cittadini. Insomma una cosa è la politica - sembra suggerirci il premier-segretario - altra cosa è la civica amministrazione. È il primato del neo-centralismo imperniato sul governo e sul premier. Infatti uno dei paradossi di questa strana campagna elettorale è nella preponderanza in tv e sui giornali dei temi legati al referendum costituzionale, che si terrà solo tra cinque mesi. Di fatto la prossima scelta tra il Sì e il No ha oscurato il presente delle nostre città.
Esemplare Roma. Ferita da Mafia Capitale. Umiliata dalla gestione del caso Marino. Malmessa come nessun’altra capitale europea. La sfida tra i candidati sindaci è scivolata verso il minimalismo delle idee: buche, traffico, assessori a rotazione. Milano, invece, si gode la sua primavera (non solo climatica). Il duello è tra due manager che fingono di essere estranei alla politica. È lo spirito del tempo: la presunta verginità come virtù da esibire. Minimalismo delle ambizioni.
Comunque vada a finire, il risultato delle comunali è destinato a pesare sul prossimo referendum. E stavolta va valutato con attenzione il numero degli astenuti. Perché se si rivela alto anche in questa occasione, dove storicamente è più sentita la partecipazione, l’allarme sarà massimo. Quando si è svolto il poco appassionante referendum sulle trivelle, Renzi si è intestato le astensioni come un successo della linea del suo governo. A ottobre invece dovrà portare ai seggi almeno 14 milioni di cittadini schierati per il Sì. Sono necessari per bilanciare i 13 milioni e passa di elettori che disobbedendogli gli hanno già votato contro in aprile. È lecito ipotizzare infatti che quei 13 milioni rappresentino lo zoccolo duro dell’antirenzismo. Ieri contro le trivelle, domani contro la nuova Costituzione. Sensibili alla mobilitazione i “contras” di ogni colore.
Si vota in 1.342 municipi. Secondo calcoli del “Sole 24 ore”, i candidati sindaci sono 3.602. Ma gli aspiranti consiglieri addirittura 77.154 per 16.604 seggi nei consigli comunali e 5.935 poltrone nelle giunte. Un candidato ogni 162 elettori. È il festival delle liste civiche, quasi quattromila su poco meno di cinquemila; quelle - secondo l’Antimafia - più facilmente esposte all’inquinamento affaristico-malavitoso. In epoca di partiti liquidi e di disincanto generale, la corsa al “posto pubblico” su una seggiola comunale attira molti appetiti. Meglio dunque usare l’arma del voto, anziché subire un voto armato.
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