Diseguaglianze e iniquità in crescita da anni. Che le classi dirigenti non hanno voluto vedere. Le radici profonde delle scelte elettorali in Europa
Ci stiamo avventurando in terre incognite. Elezione dopo elezione. Lo choc provocato dal referendum britannico legittima con il voto popolare quella che possiamo definire la caduta dell’egemonia culturale delle classi dirigenti europee, così come si sono affermate dalla Seconda guerra mondiale in poi. “La fine delle élite”, è la sintesi contenuta nel titolo di copertina di questa settimana. L’Europa si dissolve nelle urne. Con il voto democratico, cioè con lo strumento più popolare e al tempo stesso sofisticato che tre secoli di cultura politica ci hanno tramandato. Paradosso della Storia: lì dove un faticoso e travagliato percorso ebbe inizio, con le rivoluzioni borghesi inglese e francese del XVII e XVIII secolo, proprio lì sembra interrompersi il patto costituente tra rappresentanza politica e rappresentati.
«È la rivolta del popolo contro le élite», così Marine Le Pen raccontò l’insperata massa di voti raccolti nel primo turno delle regionali francesi lo scorso dicembre. È diventato il manifesto del populismo montante. Che ha travolto lo stesso David Cameron: aveva barattato il referendum sull’Europa in cambio di voti per assicurarsi la rielezione appena un anno fa. Apprendista stregone, sarà ricordato come il premier britannico più inadeguato e irresponsabile degli ultimi 70 anni. Le generazioni del Dopoguerra hanno sempre concepito la democrazia e la pace come beni conquistati per sempre sulle macerie del nazifascismo. Un’epoca durata a lungo, durante la quale le sorti magnifiche e progressive del Vecchio Continente hanno assicurato sviluppo, crescita sociale, welfare e cooperazione a chi aveva avuto la fortuna di vivere dalla parte giusta del Muro di Berlino. Le istituzioni sovranazionali e la moneta comune avrebbero dovuto metterci al riparo dai drammi del passato. Un sogno utopico solo in parte realizzato. Progressivamente scalzato, nella percezione delle grandi masse, da una teocrazia esoterica e intoccabile, dispensatrice di dogmi incomprensibili: «Ce lo chiede l’Europa…» è diventata, non solo in Italia, l’ambigua formula che a tutto obbliga e nulla spiega. Ma di fronte alla guerra asimmetrica condotta dal terrorismo islamico - ultimo attacco a Istanbul - le istituzioni comunitarie latitano.
Con questo numero dell’“Espresso” proviamo a fornire ai lettori strumenti di comprensione di un processo dagli esiti imprevedibili. Ecco dunque i punti di vista di Zygmunt Bauman, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Roberto Esposito, Marc Lazar, Enrico Letta, Marcello Minenna, Manuel Vilas.
«Il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica» dice Bauman parlando della «forza degli incubi della decadenza di cui è foriero l’avvenire minaccioso». La Grande Crisi, scoppiata nel 2008 e dalla quale non siamo mai usciti, è stata il detonatore di questa incertezza di massa. Tuttavia secondo recenti dati dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tra il 1975 e il 2012 il 47 per cento circa della crescita totale dei redditi «è andato a beneficio dell’1 per cento dei più ricchi». Insomma le ingiustizie sociali e le diseguaglianze hanno radici profonde che riemergono prepotentemente alimentando le recenti scelte politiche dell’elettorato europeo.
Ma non sono più le tradizionali forze di sinistra a farsi artefici del cambiamento. È il populismo ad alimentarsi del malessere provocato da vaste aree di ineguaglianza. L’interpretazione manichea trova così la sua sintesi: da un lato il popolo vessato, dall’altro le élite privilegiate. E dentro i confini delle élite ritroviamo non solo la City londinese, le banche, i governi e i partiti, il mondo dell’informazione e chi più ne ha, più ne metta. Persino le società di sondaggi patiscono la disistima di massa come dimostrano i penosi flop degli exit poll nel Regno Unito e in Spagna.
Appena un anno fa, più o meno in questi stessi giorni, Angela Merkel e il suo ministro Wolfgang Schaeuble spezzarono le reni alla Grecia dell’incauto Alexis Tsipras. L’euro è salvo (forse), l’Europa no, fu il commento su questo giornale. Nei manuali di economia non si studia l’orgoglio di una nazione. Presi per fame i greci, costretti a umilianti file davanti ai bancomat, la crisi si è riproposta moltiplicata al cubo nella potente Inghilterra. Senza che le classi dirigenti avvertissero il rischio. Così, se è vero che il mercato globale e la finanza internazionale non si candidano mai alle elezioni, abbiamo imparato in modo traumatico che gli elettori se possono votano contro di loro, divinità inique di una società ingiusta.
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