
Secondo la valutazione firmata dalla società di advisory indipendente Mazars, la parte pubblica di Vtp vale 26 milioni di euro a fronte di almeno altri otto anni di concessione fino al 2024. Venezia Investimenti puntava a due terzi di questa quota, pari a circa 18 milioni di euro. Adesso è in corsa per il 48 per cento subito, il resto fra due anni. Ma la sostanza cambia poco.
Negli ultimi tre anni il terminal passeggeri veneziano ha vissuto un autentico boom economico, nonostante la crisi, totalizzando profitti netti aggregati per 11,4 milioni di euro. Parte dei dividendi viene distribuita ai soci di minoranza. Ma il terminal passeggeri resta comunque una gallina dalle uova d’oro che potrebbe presto impreziosire ulteriormente il suo rendimento.
Nell’accordo di acquisto, infatti, gli armatori di Venezia Investimenti progettano una nuova “struttura di accosto” nell’area dismessa di Porto Marghera, dove una volta c’era il terminal del petrolchimico e dove alcuni gruppi ambientalisti vorrebbero spostare l’approdo dei colossi di nuova generazione da oltre 6 mila passeggeri che non possono più scorrazzare lungo il canale della Giudecca per guardare dall’alto il campanile di San Marco.
Le prospettive di un terminal dotato di doppio approdo, alla Stazione marittima e a Marghera, sono ovviamente ancora più rosee, anche se il colore dominante della vicenda resta il giallo.
L’audace colpo del porto turistico si gioca in un dedalo di scatole cinesi che sembrano avere l’unico scopo di confondere le idee a quegli stessi politici che, in modo apparentemente bipartisan, giurano di volere conservare il controllo della struttura. Ma procediamo in ordine cronologico.
Alla fine dello scorso anno una norma contenuta nella Legge di stabilità 2016 prescrive che i porti, in quanto autorità di controllo, non possono essere proprietari del gestore controllato.
Il presidente dell’autorità portuale di Venezia (Apv) Paolo Costa, in passato ministro prodiano dei Lavori pubblici, sindaco della Serenissima ed eurodeputato, si trova così nella posizione di dovere vendere perché è il maggiore azionista di Venezia terminal passeggeri attraverso una catena societaria che vede ben tre scalini. Sotto Apv c’è Apv Investimenti (Apvi), costituita nel 2001. Apvi controlla i due terzi di Apvs, costituita fra Costa e la Regione nel 2013 e apparentemente inutile. Apvs a sua volta ha in mano il 53 per cento di Vtp.

Costa bandisce una gara per cedere i due terzi di Apvs in portafoglio ad Apvi. Il 33 per cento rimanente è della finanziaria regionale Veneto Sviluppo che non solo non ha l’obbligo di vendere ma ha un diritto di prelazione sulla quota dell’Autorità portuale.
Apparentemente il management della finanziaria, guidato dal presidente di fresca nomina (29 gennaio 2016) Massimo Tussardi, si dimentica della prelazione. Così il 30 marzo 2016 scatta il blitz di Venezia Investimenti. La società delle quattro compagnie di navigazione turistica, amministrata dall’avvocato Alberto Massimo Rossi e creata il 22 febbraio 2016 con sede presso lo studio legale Nctm a Milano, si aggiudica il 65,98 per cento di Apvs in via provvisoria.
In base al principio giuridicamente fondato ma storicamente nocivo che Veneto sviluppo è una spa di diritto privato con poteri decisionali autonomi, il parlamento regionale veneto viene saltato come un birillo. Trattandosi di una gara pubblica, però, l’aggiudicazione diventa di dominio altrettanto pubblico in pochi giorni.
L’opposizione democrat guidata da Alessandra Moretti, sconfitta dal leghista Luca Zaia nella corsa alla Regione un anno fa, apre le ostilità e il 19 aprile, venti giorni dopo l’assegnazione della gara, fa approvare dall’intero consiglio regionale una mozione in cui si chiede alla giunta di confermare la strategicità del controllo pubblico del terminal passeggeri.
«Zaia non può dire che non sapeva», dichiara Moretti. «È grave disinteressarsi di un asset come il porto anche dopo la mozione votata all’unanimità dal consiglio regionale. Non vorremmo si ripetesse la situazione dell’aeroporto Marco Polo, venduto ai privati dalla Regione di Galan. Forse siamo in presenza di abuso di posizione dominante».
Come diretta conseguenza della mozione, Veneto Sviluppo ci ripensa e decide di esercitare la prelazione sulla quota dell’autorità portuale. Piccolo particolare: per riscattare i due terzi di Costa servono due terzi di 26 milioni di euro, cioè 17,3 milioni. Non è proprio un’operazione ordinaria per una società che, tramontate le campagne acquisti delle finanziarie regionali trasformate in tante piccole Iri, si dedica al piccolissimo cabotaggio e ai fondi di rotazione per parrucchieri.
Un nuovo colpo di scena si rende necessario. Visto che non ha soldi per caricarsi l’intero terminal passeggeri, Veneto Sviluppo si accorda con i privati di Venezia Investimenti e l’8 maggio firma un Term sheet agreement rivelato pochi giorni dopo dalla “Nuova Venezia”. È un contratto vincolante in 22 punti che fissa le regole per amministrare il porto ai vari livelli di controllo societario. Soprattutto stabilisce chi deve comandare fra gli azionisti.
Nella nuova formula Veneto Sviluppo dovrebbe salire al 51 per cento, garantendo il controllo pubblico. Venezia Investimenti comprerebbe il 48 per cento. L’1 per cento che avanza sarebbe conservato dall’Apv di Costa il quale, peraltro, è in scadenza e non più eleggibile a meno che le nuove aggregazioni fissate dalla recente riforma dei porti non facciano ripartire il conto dei mandati da zero.
In base al Term sheet agreement, per conquistare la maggioranza assoluta di Apvs la finanziaria regionale dovrebbe sborsare poco più di 4,5 milioni di euro, una cifra più alla portata delle sue casse. Anche l’assegno dei privati di Venezia Investimenti sarebbe più leggero perché andrebbe a coprire il 48 e non il 66 percento di Apvs.
Tutto bene? Fino a un certo punto. Il Term sheet agreement, che deve essere approvato entro il 30 ottobre del 2016 oppure verrà annullato, prevede che entro due anni Veneto Sviluppo possa cedere la maggioranza alla stessa Venezia Investimenti che avrebbe diritto di prelazione sulle quote pubbliche.
È lo stesso schema seguito durante la privatizzazione della Save, ceduta dalla finanziaria regionale alla Save di Enrico Marchi durante il lungo regno veneto di Giancarlo Galan. La Save non è solo un esempio storico ma ha già un piede dentro il terminal passeggeri. La sua quota si trova al gradino più basso ed è pari al 22,18 per cento di Vtp, la stessa percentuale degli operatori locali raccolti sotto la sigla societaria Finpax. Marchi ha un’ovvia sinergia fra l’aerostazione di Tessera e il porto riassunta nel progetto Fly and Cruise, un’offerta turistica integrata fra volo e crociera. Non solo la Save di Marchi è un appoggio naturale per le grandi compagnie di navigazione turistica, ma c’è un altro particolare da non trascurare.
I soci dell’apparentemente superflua Apvs, ossia Veneto Sviluppo e il nuovo entrato Venezia Investimenti, hanno un diritto di prelazione primario sulla cessione delle quote rispettive. Ma se nessuna delle due esercita la prelazione, i soci del livello inferiore, fra i quali Save, hanno un diritto di prelazione secondario e possono esercitarlo aumentando il loro peso nel terminal passeggeri.
Martedì 31 maggio il presidente di Veneto Sviluppo si è presentato in Regione per riferire sull’audace colpo del porto di Venezia. «Rispondo solo alla giunta che in questo caso non mi ha dato indicazioni», ha detto. «Se non vi va bene, sfiduciatemi».
Per adesso, in termini di diritti acquisiti, c’è soltanto l’assegnazione provvisoria che darebbe il controllo delle banchine agli armatori privati. Non è improbabile che le quattro compagnie di navigazione, in caso di difficoltà, decidano di usare il bando vinto come strumento di contenzioso nei confronti della parte pubblica.
Per adesso l’unico ricorso contro la gara assegnata il 30 marzo è stato presentato al Tar dai portabagagli della stazione marittima, la cooperativa che è socia di minoranza di un socio di minoranza, la Finpax.
Ma i portabagagli veneziani non sembrano avere abbastanza forza per bloccare i colossi del turismo. Né sembra avere avuto effetto lo studio del centro The european house-Ambrosetti dove si afferma che i porti italiani vanno in perdita quando sono gestiti dagli armatori per il semplice motivo che le tariffe vengono abbassate per aumentare gli utili delle compagnie di navigazione. Anche questo è conflitto di interessi e non dovrebbe contare di meno soltanto perché a essere in conflitto sono i privati.
ha collaborato Alberto Vitucci