Sorpresi dal voto per il “leave”? Bastava fare un giro nelle periferie. O guardare la tv. Per scoprire un Paese involgarito. E con un’estetica di stampo sostanzialmente pre-fascista. Ecco il paese che dovrà guidare la neo premier Theresa May

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Qualcuno, fra i nostri opinionisti più accreditati, fra gli europeisti più convinti, fra gli intellettuali più moderni e liberal, si è mai preso la briga, negli ultimi anni, di fare un giretto fuori città? Certo, Londra è una metropoli meravigliosa, ricca, colta, aperta, e multietnica. Teatri gremiti di novità, i migliori musei del globo, concerti, opera, librerie, biblioteche. I ragazzi di tutto il mondo la affollano: ci vanno a imparare l’inglese, o meglio a fare i lavapiatti e magari a ottenere qualche borsa di studio, negata in patria. Londra è la città piena di vita, che elegge un sindaco “open minded” come Sadiq Khan, classe 1970, britannico di origine pakistana, che ha partecipato all’ultimo Gay Pride, benché di religione musulmana. Londra è il mercato finanziario più avanzato, è la città “che mai non dorme”, dove si stampano più giornali che in ogni altro angolo del pianeta.

Magnifico. Ma l’Inghilterra non è solo the Greater London. C’è la provincia. I piccoli centri con (letteralmente) quattro case e una Main Street. C’è la campagna. I pub disseminati fra i campi. Dove la sera si va a bere una pinta di birra, e la sera significa le cinque del pomeriggio. Dove si cena poco dopo. Dove la famosa middle class si è impoverita paurosamente negli ultimi tempi e l’odio verso i Londoners, ricchi e smart, è diventato endemico. Dove non si vede nessun altro che non sia inglese da dieci generazioni e dove chiunque abbia la pelle olivastra è chiamato “mujaheddin”.

Ma anche senza lasciare la città, anche senza mettere il naso fuori di casa, basta dare un’occhiata ai canali televisivi, a eccezione della Bbc. I nostri intellettuali, opinionisti eccetera si sono mai sintonizzati sulle decine di televisioni private, che affollano l’etere britannico? Hanno visto trasmissioni come “Geordie Shore” o “The Valleys” o altri consimili reality show? Avrebbero scoperto un’umanità (perlopiù giovane) in contraddizione con ogni ipotesi evolutiva: protagonisti violenti, ottusi, volgari, totalmente privi di inibizioni, capaci di pisciare nel piatto in cui si è appena gozzovigliato, di vomitare sul divano, interessati solo a sbronzarsi fino allo sfinimento, dopo aver passato ore a imbrillantinarsi i capelli. E le giovani donne non sono da meno: si acconciano da mignotte, parlano solo di dimensioni dell’uccello e, se vengono prese a sberle dal macho di turno, fanno subito le gattine.

Si tratta di trasmissioni televisive per pochi? Mandate in onda a ora tarda? Macché. Fanno eccellenti ascolti e in prima serata. Tutti le guardano, come in visita allo zoo, e intanto lo zoo si è trasferito a casa tua. Basta superare la soglia del luogo in cui abitano conoscenti con figli teen-ager, per capirlo: le regole del vivere civile sono saltate, il caos regna sovrano, il frigorifero è l’ultimo bastione famigliare (si mangia in piedi, con l’anta aperta del frigo - e si mangiano solo schifezze). Altro che cottage con le tendine di pizzo alle finestre. Altro che afternoon tea. Tutto è preconfezionato, precotto, predigerito. Tutto è pre-.

Sto parlando come un moralista? Forse. Ma onestamente parlare d’Europa, di libera circolazione, di ideali comunitari, nel contesto della provincia britannica, fa ridere, per non dire altro. I modelli culturali sono cambiati. Se anni fa certi pensieri e pulsioni venivano in qualche modo repressi, o tenuti a bada, adesso non è più così. Se ci si vergognava di esprimere il proprio razzismo elementare, ora gli si dà parola senza troppi giri di frase. Abbasso il politically correct, evviva la sincerità senza remore. Basta con gli asiatici, gli afro, i diversamente abili, le donne e i gay. Chiamiamoli col loro nome (inglese): ting-tong, nigger, retard, t&a, fag. E cioè: musi gialli, negri, ritardati, tette e culo, froci. Che c’è di male a usare questi termini, se anche tv e tabloid li usano?

Il paradigma estetico è mutato. Ora il corpo delle donne si è liberato anche del femminismo. Le ragazze devono essere se stesse e, quando non sono bulimiche o anoressiche (guardatevi intorno, mentre siete a spasso nel Suffolk o nel Sussex, e capirete che non si parla di eccezioni), possono mostrarsi in tutta la loro aggressività: imitano le eroine pop, sboccate e rapaci. I maschi? Il modello è l’hooligan. Tatuaggi, piercing, barba incolta, sudore, rutti & parolacce: un pezzo di merda, ma tanto tanto sexy.

E, dispiace dirlo, non si salva nessuno. Credete che i gay siano da meno? Ovviamente, devo essere l’unico che, negli ultimi tempi, è andato a spulciare fra siti web e blog della comunità omosessuale britannica. Ovviamente, devo essere l’unico a essersi accorto che siti e blog pullulano di “gay che odiano se stessi”, di richieste apertis verbis di essere insultati, dominati, umiliati nel corpo e nello spirito da qualche giovane etero che li usi come “bancomat umani” o “animali domestici” o “schiavi tuttofare” o “latrine personali”. E devo essere sempre e solo io ad aver letto che un certo ragazzo di Norwich scriveva che “prima venivo bullizzato solo a scuola”, mentre adesso “grazie a internet, posso esserlo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette”.

E Shakespeare, Jane Austen, Virginia Woolf? Dov’è la cultura britannica degli ultimi secoli? È a Londra, più o meno, e nelle celebri e prestigiose università: quelle che gli inglesi mediamente impoveriti e di provincia chiamano “la mafia di Oxbridge” (cioè di Oxford e Cambridge). E che siano conservatori o laburisti, non importa, perché i due partiti tradizionali contano ormai quanto il due di briscola. Perché sono ricchi e viziati dai loro privilegi. E infatti non a caso vanno d’amore e d’accordo con la detestata oligarchia che regna a Bruxelles – quella che apre le frontiere all’invasione degli immigrati e intanto scodella regole assurde sulle dimensioni delle zucchine.

Si dice che l’estetica è la madre dell’etica. In fondo, basta pensare a quando ci innamoriamo di qualcuno, per capirlo. Di solito, ci si innamora prima di un paio d’occhi e solo dopo, e non sempre, del relativo cervello.

L’estetica oltre Manica non è più quella che credevamo di conoscere: ed è un’estetica sostanzialmente pre-fascista. Muscolare, manichea, sfrontata. Non ama le sfumature e non le pratica. Se proprio deve scegliere un tempo verbale, opta senza dubbio per il passato: ecco perché la nostalgia per il vecchio Impero e per istituzioni decotte come il Commonwealth oggi ha nuovo slancio. Ecco perché, come due secoli fa, si sente sempre più spesso parlare di “white supremacism”, di supremazia bianca.

Si dirà: i giovani britannici hanno votato perlopiù per rimanere nell’Unione Europea, inoltre gli inglesi non hanno mai avuto il fascismo. Vero. Ma i giovani di quali classi sociali? E con che livello di istruzione? In realtà, temo che, senza le percentuali scozzesi e dell’Irlanda del Nord, al sessanta per cento per il Remain, il voto dei giovani britannici avrebbe avuto altre proporzioni. Quanto al fascismo: non notate una qualche similitudine con la Germania della Repubblica di Weimar? Non vedete un’analoga crisi della rappresentanza politica? Un simile odio della campagna verso la città? E non è vero che, mentre negli ultimi decenni Londra avanzava clamorosamente nel progresso tecnico-culturale, come la Berlino anni Venti, tutto intorno era in larga misura arretratezza, neo-povertà, rabbia?

Non sono un sociologo né un politologo. Appartengo alla categoria degli scribacchini che raccontano storie, molte volte con smarrimento, più di rado con gioia. E le storie che ho visto formarsi e diventare comuni, in questi ultimi quindici anni di frequentazione e affetto per il suolo britannico, sono tali da sentirsi male. Il guaio è che, se guardo al Continente, con i suoi grigi e multipli Juncker, non mi sento molto meglio.