Dopo gli errori fatti con Etruria & C., Roma e Bruxelles studiano il modo per arginare la sfiducia nel sistema creditizio. Anche in vista dei test sui bilanci, attesi a fine luglio. Ma per intervenire Renzi deve trovare nelle norme l’appiglio giusto. Ecco cosa succede e i termini da conoscere

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Imparare dagli errori. Per comprendere quel che sta accadendo in questi giorni intorno alle banche, è bene tornare indietro di qualche mese. Lo scorso autunno, le autorità italiane parevano convinte di poter salvare senza alcun danno quattro piccoli istituti del centro Italia in crisi, ormai da tempo sotto la gestione diretta - tramite commissariamento - della Banca d’Italia di Ignazio Visco.

Per settimane tra Roma e Bruxelles andò avanti una trattativa per far entrare in Banca Marche, Popolare dell’Etruria, CariFerrara e CariChieti il Fondo interbancario per la tutela dei depositi, opportunamente finanziato con 2 miliardi di euro dagli altri istituti bancari. Ancora in ottobre sembrava fatta, poi la Commissione europea disse no. Perché? Perché le banche al Fondo non aderiscono su base volontaria ma vi sono obbligate. Per Bruxelles, dunque, erano aiuti di Stato. «Mi sfuggono le motivazioni giuridiche del no», commentò il 10 novembre il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, definendo «cavilli» gli argomenti della Commissione .

La crisi di fiducia che si è abbattuta sulle banche dopo il caso di novembre ha però prodotto pesanti effetti. Le autorità italiane non avevano un piano B e, da allora, tanti problemi sono emersi. Si è visto che non esistono privati interessati a sottoscrivere gli aumenti di capitale di istituti importanti come Popolare Vicenza e Veneto Banca. Le parti sane delle quattro banche salvate per decreto il 22 novembre non hanno trovato un compratore, nonostante sia passata la prima scadenza concordata, il 30 giugno. Infine, nonostante alcuni passi avanti, come la fusione Banco Popolare-Bpm, altri istituti non hanno risolto i guai che li affliggono, a cominciare dal Monte Paschi. Tutto questo a pochi giorni dall’esito degli stress test che l’Europa sta conducendo sui conti delle banche.

È partendo da questi fatti che il premier Matteo Renzi e il ministro Padoan hanno affrontato la difficile trattativa con l’Europa e con i Paesi che non vorrebbero concedere troppi margini di manovra all’Italia, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel. L’obiettivo del governo è stato muoversi all’interno degli spazi lasciati aperti dalla direttiva sul “bail in”, predisponendo un ombrello di possibili interventi pubblici che lo Stato, se qualche banca ne avesse bisogno, potrà decidere di aprire. Tutto è appeso all’unico appiglio che le norme lasciano a un salvataggio pubblico: e cioè il fatto che un caso di dissesto possa determinare «una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro». 

È difficile negare che questo rischio sia concreto. Allo stesso tempo, è dura immaginare che Merkel & C. rinuncino del tutto a far pesare il principio del bail in, e cioè il fatto che, in caso di crisi, i primi a rimetterci devono essere gli investitori che hanno puntato i loro capitali su una banca. Di qui una delle ipotesi circolate: salvare i risparmiatori che hanno sottoscritto obbligazioni convertibili, sacrificando invece, se avvenisse un dissesto, gli investitori istituzionali. Una strada stretta, per Renzi e Padoan. Che, come monito, dovrebbero ricordare l’esultanza della commissaria europea Margrethe Vestager dopo il niet di Bruxelles sui quattro istituti e il decreto del governo: «Sono state ridotte al minimo le distorsioni della concorrenza», disse. Intanto, in Borsa, le banche iniziavano un crollo che non si è più fermato.

LE PAROLE DELLA CRISI / BAIL IN 

La procedura di bail in è stata introdotta dalla direttiva europea del 15 maggio 2014 denominata Brrd (Bank recovery and resolution directive). L’obiettivo di queste norme è quello di creare un sistema di regole uguale per tutti i Paesi della Ue. Il principio base è che l’eventuale salvataggio di un istituto di credito non sia a carico dello Stato, e quindi di tutti i contribuenti, ma venga finanziato con le risorse proprie della banca, cioè quelle che azionisti, obbligazionisti e depositanti le hanno fornito in precedenza.

La direttiva Brrd, e di conseguenza anche il bail in, è entrata in vigore dal primo gennaio di quest’anno e si applica alle banche considerate in dissesto o a rischio dissesto. Nel nostro Paese l’autorità incaricata dell’applicazione della Brrd è la Banca d’Italia.

La procedura di risoluzione prevede che dapprima si tenti il salvataggio con la vendita di attività dell’istituto, oppure mediante la creazione di una banca ponte (bridge bank) per gestire le attività in vista di una futura cessione o anche con il ricorso a un veicolo detto bad bank (vedi pagina 21) che assorba le attività più deteriorate e ne gestisca la liquidazione. Se si ritiene che questi strumenti non siano in grado di evitare il crack, cioè la liquidazione coatta amministrativa, allora si fa ricorso al bail in.

In concreto, significa che il capitale della banca (le azioni), i crediti (le obbligazioni) e infine anche i depositi possono essere utilizzati in tutto o in parte per coprire le perdite di bilancio e quindi procedere al rilancio eventualmente anche grazie a risorse pubbliche. Nell’ordine vengono quindi colpiti dalle perdite dapprima gli investitori che possiedono le azioni, poi quelli che detengono titoli subordinati (vedi qui sotto), quindi gli obbligazionisti e infine i correntisti (solo persone fisiche e piccole aziende), ma unicamente per la quota del deposito  superiore ai 100 mila euro. Restano al riparo da perdite, oltre ai conti inferiori ai 100 mila euro, anche le passività garantite, per esempio i covered bonds, il contenuto delle cassette di sicurezza e i titoli affidati in deposito o in gestione alla banca, i debiti verso i dipendenti e quelli commerciali. 


OBBLIGAZIONI SUBORDINATE

Le obbligazioni  subordinate sono una categoria di titoli che in caso di  difficoltà dell’istituto che li ha emessi vengono rimborsati soltanto dopo che siano state pagate per intero le obbligazioni cosiddette senior. Il rischio per il sottoscrittore delle subordinate è quindi maggiore e infatti il rendimento offerto da questo tipo di titoli è più elevato rispetto a quello dei titoli senior.
Danièle Nouy, a capo del consiglio di vigilanza della Bce

Negli anni scorsi, le banche italiane hanno piazzato una gran quantità di obbligazioni. Per spiegare l’ampia diffusione delle subordinate va segnalato che in alcuni casi i bond di questa categoria  possono essere assimilati a strumenti di capitale (le azioni) e quindi conteggiati come mezzi propri per rispettare i parametri imposti dalla Vigilanza. 

Il guaio è che molti clienti hanno comprato le obbligazioni di categoria inferiore pensando che si trattasse di titoli sicuri, al riparo da brutte sorprese legate al cattivo andamento degli istituti di credito. La dimostrazione del contrario è arrivata nel novembre 2015 con il dissesto delle quattro banche, Etruria, Marche, Carife e Carichieti, al centro di un decreto ad hoc del governo. Oltre 10 mila risparmiatori hanno visto azzerato il loro investimento in obbligazioni subordinate, la stessa sorte che è toccata a chi aveva comprato azioni.

Il Monte dei Paschi ha collocato quasi 5 miliardi di subordinate che scadono tra il settembre 2016 e il 2020. Un titolo in particolare, emesso nel 2008 per un valore di 2,1 miliardi, è stato venduto a migliaia di risparmiatori. Se la banca senese dovesse ricorrere a una qualche forma di salvataggio così come previsto dalle norme europee del bail in, anche i sottoscrittori di questi titoli potrebbero perdere in tutto o in parte il loro investimento.     


STRESS TEST

Gli stress test sono gli esami a cui sono sottoposti i bilanci delle banche per verificare la loro solidità in caso di condizioni economiche avverse. Il prossimo 29 luglio verranno annunciati i risultati delle valutazioni affidate ai tecnici dell’Eba, l’Autorità bancaria europea, che riguardano cinque grandi istituti nazionali: Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, Banco Popolare e Ubi.

La situazione più delicata, come noto, è quella del Monte dei Paschi. Secondo le previsioni formulate nei giorni scorsi da molti analisti, i risultati dell’esame europeo segnaleranno che la banca senese avrà bisogno di una nuova iniezione di capitali per far fronte a un ipotetico netto peggioramento dello scenario economico italiano. Potrebbero essere necessari fino a 6-8 miliardi di fondi supplementari. Proprio sulla base di queste indiscrezioni, i titoli del Monte fin da giugno hanno cominciato la loro corsa al ribasso. Un altro colpo è arrivato con la pubblicazione, ai primi di luglio, di una lettera della Vigilanza della Bce in cui si intimava a Mps di presentare un piano triennale che preveda la cessione di 10 miliardi di sofferenze (i crediti di più difficile riscossione).

Già nell’ottobre di due anni fa, Banca centrale europea e l’Eba, al termine di un complicato iter durato 12 mesi, comunicarono i risultati degli stress test che all’epoca presero in esame 15 istituti di credito italiani. Mps e Carige rimediarono una bocciatura e furono costretti nel giro di qualche mese a raccogliere denaro sul mercato per mettersi in regola. Popolare di Vicenza e Veneto Banca passarono l’esame in extremis, ma nelle settimane successive ulteriori controlli della Vigilanza europea innescarono il tracollo dei due istituti. 

SOFFERENZE

Da quando la crisi economica è esplosa, alla fine del 2008, i prestiti che le banche non riescono più a farsi restituire dai clienti sono diventati un problema sempre più difficile da risolvere. I più critici sono chiamati “sofferenze”: si tratta dei prestiti a soggetti in stato di insolvenza o in «situazioni equiparabili», recitano le regole Bankitalia. Il loro valore a fine maggio era di 199 miliardi, vicinissimo al record di 202 miliardi di gennaio. Per fare un confronto, a fine 2013 le sofferenze erano pari a 155 miliardi, a fine 2008 a 68 miliardi.

Non tutta questa montagna rischia di trasformarsi in perdite: le banche provvedono regolarmente ad accantonare risorse per fronteggiare i crediti inesigibili. Al netto degli accantonamenti già fatti, il valore delle sofferenze scende così a 83 miliardi (dato di aprile). Il problema, però, sono quei crediti non ancora classificati come sofferenze, perché la banca nutre maggiori speranze di riaverli indietro. Sono di due tipi: i primi in ordine di gravità sono le “inadempienze probabili”, i secondi le “esposizioni scadute”, che l’istituto pensa di poter recuperare senza dover escutere le garanzie. Il totale di tutti i crediti deteriorati è di 360 miliardi, dai 117 del 2008. L’Eba calcola che, per le principali banche italiane, i crediti deteriorati rappresentino il 16,6 per cento dei prestiti concessi, tre volte la media Ue (5,7 per cento).

Gli istituti stanno cercando di vendere a operatori specializzati interi pacchetti di sofferenze ma, per vari motivi, non ci stanno riuscendo. Il governo ha tentato di intervenire in vari modi, perché la gestione delle sofferenze e il rischio di dover dirottare nuovi capitali per far fronte alle perdite che ne derivano, sta di fatto ingessando l’attività normale delle banche, che non sono disposte ad assumersi nuovi rischi. Ha varato un decreto per rendere più rapidi i tempi lunghissimi che servono agli istituti per entrare in possesso dei beni messi a garanzia di un credito, come gli immobili acquistati con un mutuo. E ha introdotto una garanzia statale sulle sofferenze cedute, la cosiddetta Gacs (Garanzia cartolarizzazione sofferenze), al fine di agevolare le banche a liberarsene. 


GAGS

La prima ad annunciare che l’avrebbe utilizzata era stata la Banca Popolare di Bari, lo scorso 25 marzo. «Sono molto soddisfatto», aveva dichiarato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, «vuol dire che la Gacs è uno strumento utile per smaltire progressivamente lo stock di crediti deteriorati che limitano la capacità di sostegno del sistema bancario alla ripresa dell’economia». Tanto entusiasmo si rivela però prematuro. Il 9 maggio la società incaricata di effettuarla - la Prelios - dice che l’operazione è «alla fase finale», poi l’11 luglio fa sapere che mancano ancora i decreti attuativi da parte del governo, anche se tutto è pronto. Nel frattempo, però, è diminuito fortemente il volume dei crediti in vendita, dagli 800 milioni iniziali a 500.

La Gacs in teoria funziona così. Una banca che ha un miliardo di sofferenze, li cede a una società veicolo sulla base di un valore di mercato pari, ad esempio, a 200 milioni. La società veicolo finanzia l’operazione vendendo sul mercato tre classi di obbligazioni: senior, mezzanine, junior. Se riesce a recuperare crediti per una cifra superiore ai 200 milioni (più i costi finanziari dell’operazione), la società veicolo ci guadagna; se resta sotto, ci perde. In questo caso le prime a non essere rimborsate per intero sarebbero le obbligazioni junior, poi le mezzanine, infine le senior. L’aiuto del governo interviene come ulteriore garanzia sulle sole obbligazioni senior, permettendo alla società veicolo di ridurre i costi del finanziamento e quindi rendendo più allettante l’intera operazione.

Perché allora l’aiuto pubblico finora non ha funzionato? Probabilmente il motivo sta nelle conseguenze immediate che la cessione delle sofferenze ha per le banche. Venderle vuol dire far emergere in bilancio le perdite sui crediti ancora latenti, in un momento già molto difficile per i conti. E gli effetti della garanzia statale sono forse troppo marginali per spingere i banchieri a muoversi su questa strada.


BAD BANK
il termine inglese “bad bank” serve a indicare il contenitore finanziario in cui vengono collocate le attività più difficili da smaltire di un istituto di credito quando quest’ultimo viene sottoposto a una ristrutturazione. Nell’ultimo anno si è a lungo discussa la possibilità che lo Stato fornisse una qualche forma di garanzia alle società create dalle banche per isolare e gestire i propri crediti a rischio. Lo stop dell’Unione Europea agli aiuti statali ha poi ridimensionato l’intervento e sono nati i cosiddetti Gacs (vedere sopra).

Come esempio concreto di bad bank si può prendere la Rev spa, costituita nel dicembre scorso per rilevare i crediti di più difficile riscossione rimasti in carico a Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Dopo il decreto del governo, gli asset ritenuti migliori, insieme, per esempio, ai conti correnti delle clientela, sono andati ai nuovi istituti nati dalle ceneri delle quattro banche finite in liquidazione. Il resto delle attività è invece finito nella cosiddetta bad bank, la Rev appunto, in attesa di essere rottamato, cioè venduto al miglior offerente a prezzi ovviamente molto inferiori a quelli del valore nominale dei crediti a rischio, con uno sconto che può superare anche l’80 per cento.

Nel frattempo anche le good banks, cioè Etruria e le altre, sono alla ricerca di compratori.  Finora però la quasi totalità delle offerte è arrivata dai cosiddetti fondi avvoltoio, che comprano a prezzi di saldo per poi rivendere, spesso a pezzi, le banche acquisite. Il governo, e anche Banca d’Italia, vorrebbero evitare un epilogo di questo tipo. C’è tempo fino al 30 settembre, data ultima fissata dall’Unione Europea per completare la cessione. 


ATLANTE

Lo strumento di pronto soccorso finanziario nato nell’aprile scorso per gestire le crisi bancarie più complicate non si chiama Atlante per caso. Proprio come il personaggio mitologico, il fondo presieduto dall’economista Alessandro Penati è chiamato a reggere il peso di istituti di credito pericolanti, con bilanci in grave perdita e zavorrati da crediti a rischio. Gli interventi devono avvenire senza il ricorso a fondi pubblici, così come prescrivono le regole dell’Unione Europea. A contribuire al fondo sono quindi banche e assicurazioni private, oltre alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) e alle Poste, le cui attività e passività formalmente non rientrano nel bilancio dello Stato.

Atlante ha fin qui raccolto 4,25 miliardi, con Intesa e Unicredit, le due maggiori banche nazionali, che hanno versato un miliardo ciascuna, seguite da altri 17 sottoscrittori (Fondazioni bancarie, Ubi, Generali, Allianz Italia e altri ancora) con quote minori. Il fatto è che più della metà delle risorse del fondo sono già state assorbite dai due primi interventi, ovvero i salvataggi di Popolare Vicenza (1,5 miliardi) e Veneto Banca (un miliardo). Atlante è così diventato l’azionista di controllo di entrambe le banche, ma i soldi in cassa appaiono del tutto insufficienti per portare a termine con successo l’altra missione di Atlante, cioè l’acquisto di crediti deteriorati da istituti in difficoltà, tipo Monte dei Paschi e altri ancora, così come per eventualmente partecipare a un aumento di capitale della banca senese.

Per questo motivo, da settimane ormai, il governo preme per varare un nuovo fondo, Atlante Due, che si faccia carico di interventi supplementari. Finora il pressing non ha dato risultati concreti. Adesso però c’è chi ipotizza l’intervento di una grande banca d’affari internazionale, da Jp Morgan a Goldman Sachs, che potrebbe prestare al fondo il denaro necessario per comprare le sofferenze del Monte. 


SALVATAGGIO STATALE

La direttiva europea Brrd, che impone il bail in alle banche in difficoltà, non esclude un salvataggio con denaro pubblico di un istituto di credito. L’articolo 32 prevede eccezioni al fine di «evitare o rimediare a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria». L’intervento dello Stato può avvenire in tre modi. Il primo è una garanzia pubblica a sostegno della liquidità che la Bce può fornire all’istituto in crisi. Il secondo è invece una garanzia sulle «passività di nuova emissione», come possono essere nuovi finanziamenti che la banca ottiene da altri investitori, convinti dal fatto che se le cose andassero male a pagare il conto sarà lo Stato. Il terzo modo citato dalla direttiva è infine «un’iniezione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale»: un’espressione che  indica l’ingresso dello Stato nel capitale della banca in difficoltà.

Prima dell’entrata in vigore della direttiva Brrd gli aiuti pubblici nei diversi Paesi europei sono stati numerosi, sotto diverse forme. Uno dei casi più citati è quello della Spagna. Il Fondo de reestructuración ordenada bancaria (Frob) è stato creato nel 2009; è interamente controllato dallo Stato; ha ricevuto finanziamenti e garanzie pubbliche per un totale di 61,4 miliardi, compresi 41 miliardi di fondi europei ottenuti nel 2012, quando la Spagna accettò una serie di misure di austerità imposte da Bruxelles e dalla Bce. Il Frob ha operato in diversi modi. Ha finanziato ad esempio sette operazioni di fusione fra diverse banche, fornendo loro complessivamente 9,7 miliardi di euro in aumenti di capitale sottoscritti attraverso azioni privilegiate; ha acquistato azioni ordinarie di istituti costretti a rafforzare il patrimonio per rispettare i limiti indicati dalle autorità di Vigilanza per ulteriori 5,7 miliardi di euro; ha comprato strumenti finanziari emessi dalle stesse banche in crisi (sui quali c’erano dei procedimenti arbitrali con i clienti che li avevano sottoscritti) per 9,8 miliardi.