L'app è arrivata anche in Italia. Il successo è solare. Meno le condizioni di utilizzo, che praticamente blindano la società dalle possibili cause legali. Con il benestare degli utenti. Anche se gli incidenti non mancano
I Pokemon saranno ovunque, ma non in tribunale. Non perché Rattata e compagni si tengano alla larga dai palazzi di giustizia. Ma perché Niantic, la società che ha sviluppato l'app, si è blindata contro le cause legali. E lo ha fatto con il consenso degli utenti.
Domanda rivolta a chi ha già scaricato Pokemon Go:
avete letto i termini d'uso? Sarebbe stato raccomandabile farlo prima di andare a caccia. Perché in questo documento di oltre 47 mila battute, si scoprono dettagli non trascurabili. In stampatello e in bella evidenza, in una sezione che però non guarda quasi nessuno, si legge: “L’utente concorda che le controversie di cui è parte insieme alla Niantic saranno risolte mediante un arbitrato individuale e che rinuncia al proprio diritto a un processo con giuria o a partecipare come attore principale o membro di categoria in qualsiasi presunto procedimento rappresentativo o azione collettiva”. Se non fosse abbastanza chiaro, significa che gli utenti accettano di non portare in tribunale la Niantic, sia come singolo che all'interno di una class action. E lo fanno accettando i termini di utilizzo, cioè scaricando l'app.
Fare causa non è mai un'eventualità augurabile, anche perché presupporrebbe episodi poco piacevoli. Ed è quantomeno improbabile finire in tribunale per un videogame. Improbabile ma non impossibile, soprattuto per un'app di realtà aumentata come Pokemon Go. In Italia è arrivata da pochi giorni, ma negli Stati Uniti si sta già verificando quella che il Los Angeles Time ha definito “
una pletora di incidenti legati all'applicazione”. C'è chi è andato a sbattere con l'auto contro un albero, chi è stato aggredito per aver seguito la caccia in luoghi poco sicuri. Non è certo tutta colpa di Pokemon Go. Ma, nel dubbio, Niantic si mette al riparo da possibili contestazioni.
La casistica è meno bizzarra di quel che sembra. Perché coinvolge anche il trattamento dei dati. Niente tribunale, ad esempio, in caso di violazione della privacy o diffusione delle informazioni che riguardano gli utenti. Sotto questo punto di vista, una falla c'è già stata: Pokemon Go accedeva a tutti i dati dell'account Google dell'utente. Un eccesso cui Niantic ha rimediato dopo le prime segnalazioni. Le informazioni fornite alla società restano comunque molte: accesso a fotocamera, contatti e posizione, indirizzo IP, tipo di browser, sistema operativo, pagina web che un utente stava visitando prima di accedere a Pokemon Go, conversazioni con gli altri utenti. Dati che – si legge nell'Informativa sulla privacy – saranno conservati anche dopo aver disinstallato l'app, per “un tempo commercialmente ragionevole”.
Solo in due circostanze si può evitare l'arbitrato. Primo: ci si può rivolgere a un giudice di pace. Secondo: si può richiedere un risarcimento in un tribunale contro “appropriazione indebita o violazione di diritti d’autore, marchi, segreti commerciali, brevetti o altri diritti di proprietà intellettuale di una parte”. Niantic si tiene alla larga dai tribunali, ma spalanca le porte alle cause che violano il copyright. Cause per le quali, con tutta probabilità, sarebbe parte lesa: è difficile pensare che sbuchi dal nulla un utente per reclamare di essere il creatore dei Pokemon Go. Più probabile che qualcuno cerchi di sfruttare il marchio del quale Niantic è proprietaria.
Se l'app è già sta scaricata tutto è perduto? No. La società lascia uno spiraglio. Che però richiede attenzione (l'avviso è piazzato nei termini di utilizzo dopo la bellezza di 5540 parole) e un ruolo attivo del giocatore. “L’utente avrà il diritto di ricorrere a ogni controversia” se lo scriverà esplicitamente in una mail indirizzata a
termsofservice@nianticlabs.com e spedita entro 30 giorni dal download dell'app. Se non ci sarà alcuna mail, Niantic riterrà che l'utente abbia “consapevolmente e deliberatamente rinunciato al proprio diritto di ricorrere a una controversia”. Consapevolmente e deliberatamente.