«Rappresenta la voglia di rivalsa dell’americano medio. Che si è sentito tradito da ogni istituzione. Che detesta Wall Street ma anche gli immigrati». Parla David Frum, ex consigliere di George ?W. Bush. E spiega la deriva dei repubblicani Usa
All’inizio, aveva il consenso di meno del 30 per cento degli elettori del Partito repubblicano. Adesso che ha ottenuto la nomination e sarà il candidato conservatore per la Casa Bianca, l’85 per cento del partito sostiene il miliardario Donald Trump. Quando mosse i primi passi, insultò esponenti del partito come il senatore eroe di guerra John McCain che ridicolizzò perché era stato abbattuto e preso prigioniero durante la guerra del Vietnam. Adesso John McCain, e tante altre figure carismatiche del Grand Old Party, hanno deciso di schierarsi con Trump.
Ma esiste una piccola frangia di irriducibili, quasi sempre intellettuali, che considerano Donald Trump il peggio che potesse accadere al Partito repubblicano. George Will, giornalista-scrittore premio Pulitzer, da sempre schierato a destra, ha fatto il clamoroso gesto di cambiare la sua iscrizione nei registri elettorali, da repubblicano a indipendente.
Invece l’ex speechwriter del presidente George W. Bush, il canadese-americano David Frum, continua a sparare alzo zero su Donald Trump ma dice che dal partito non se ne va. «Trump non ha ingannato nessuno all’interno del Partito repubblicano», è l’analisi che David Frum ha fatto nel corso di un paio di conversazioni con “l’Espresso”: «Trump si è presentato davanti ai suoi potenziali elettori nei suoi abiti normali, usando le sue parole, non quelle di altri. Ogni volta che in questi mesi ha fatto una promessa, c’erano tutti gli elementi per sapere che non aveva fondamento. Chi ha accettato Trump quando diceva “credete in me e abbiate fiducia che farò l’America grande come lo era un tempo”, sa perfettamente di aver accettato Trump per quello che è, con la sua fanfara e le sue fesserie made in Trump».
David Frum non rientra in quella categoria di intellettuali-politici che quando le cose vanno male dà la colpa agli elettori. La sua analisi cerca di mettere a fuoco quello che è accaduto negli Stati Uniti nel mondo conservatore e tra gli elettori del Partito repubblicano. «C’è stata una corsa sempre più frenetica in soccorso di Donald Trump», sostiene Frum: «I network della televisione che lo hanno promosso, i leader del partito che si sono arresi a lui, gli intellettuali che hanno spiegato il suo verbo provando a dargli dignità politica, gli elettori delle primarie che lo hanno lanciato verso la nomination, i ricchi sponsor che, quasi sempre malvolentieri, hanno firmato assegni per finanziarlo. Bene, tutti sapevano perfettamente che personaggio è Donald Trump: sapevano che è ignorante, rozzo, vanaglorioso e crudele; sapevano che abitualmente simpatizza con i dittatori e i cleptocrati, sapevano che quando riceve critiche replica attaccando a testa bassa e diffamando l’avversario, sapevano della sua mancanza di rispetto verso le donne, i disabili e le minoranze etniche e religiose, sapevano perfino delle sue affabulazioni a proposito della necessità di dichiarare il default parziale degli obblighi finanziari. Nulla di tutto questo li ha dissuasi dal mettersi in fila dietro Trump».
Come è stato possibile? Secondo Frum alcuni avvenimenti si possono spiegare, altri restano un mistero da sciogliere. Cominciamo da coloro che ferventi repubblicani hanno creato il primo corto circuito che ha messo in primo piano la figura del palazzinaro di New York dal ciuffo super cotonato. «I più arrabbiati e i più pessimisti sono gli elettori che di solito vengono definiti gli americani medi», è l’analisi che fa David Frum: «Appartengono alla middle class e sono di mezza età, non ricchi non poveri, gente che esprime tutto il suo fastidio quando sente i centralini che dicono “premi 1 per l’inglese, premi 2 per lo spagnolo” e che si meravigliano del fatto che “uomo bianco” è diventata un’accusa piuttosto che una descrizione. Gli americani bianchi di questa categoria esprimono una totale sfiducia verso qualsiasi istituzione della società: non solo verso il governo, ma anche verso le grandi corporation, i sindacati, persino il partito - quello repubblicano - per il quale normalmente votano. Si sentono esclusi da tutto e quando Donald Trump si è presentato, sono coloro che ai sondaggisti hanno detto “Ecco il mio uomo, ecco il mio candidato”. Non sono necessariamente degli ultra conservatori e non ragionano in termini ideologici. Ma in modo molto forte sentono che la loro vita non è piacevole come lo era un tempo e vogliono indietro il loro vecchio caro paese, quello che dicevano di amare. Non accade solo negli Stati Uniti, accade in molti paesi democratici del mondo a cominciare dall’Europa. Questi populisti cercano di difendere i diritti acquisiti, dalle pensioni al Medical care (assistenza sanitaria per gli anziani, ndr) contro i banchieri e i tecnocrati che in periodo di crisi chiedono austerità a tutti. Sono contro gli immigrati che chiedono a loro volta e li sfidano, sono contro il mercato globale che diminuisce i salari e i benefit di ogni tipo. In America, quasi sempre, sono vicini ai repubblicani temendo che i democratici vogliano togliergli qualcosa per distribuirlo ai nuovi arrivati e ai più poveri. Quest’anno hanno deciso di contare di più e ci stanno riuscendo. La loro ribellione ha portato la politica americana a percorrere una strada che potrà durare a lungo e l’unico modo per capire che cosa potrà esserci dopo, è quello di rivedere e analizzare il nostro recente passato».
David Frum, che ha vissuto anche l’esperienza di essere licenziato in tronco dal think tank conservatore American Enterprise per il quale aveva lavorato sette anni solo per aver criticato il modo di agire del partito sulla questione della riforma sanitaria di Barack Obama, pensa ovviamente a quello che il Partito repubblicano ha fatto negli ultimi anni, a partire dalla crsi del 2007-2008. Frum ritiene che il suo partito oggi sia come un paziente ammalato. «La nomination di Donald Trump è il segno più evidente di uno sbaglio istituzionale: se il Grand Old Party fosse stato un paziente in buona salute non avrebbe ceduto alla infezione opportunista rappresentata dalla candidatura di Trump. Bisogna dirlo, il Partito repubblicano è malato, e lo è da lungo tempo. Ma andarsene, come ha fatto il mio amico George Will, non aiuta, perché un partito può essere solo risollevato e riformato dal suo interno, non standone fuori. Paul Ryan, il leader repubblicano della Camera, merita molti rimproveri: dal 2009 al 2015, il suo radicalismo ideologico ha spinto il partito in una direzione che lo ha messo in condizione di non esprimere un decente candidato alla Casa Bianca. I repubblicani della base volevano più protezione sanitaria e meno immigrazione, la leadership del Congresso, con alla testa Ryan, ha offerto loro esattamente il contrario favorendo una richiesta di mercato che si è manifestata nella persona di Donald Trump, che è divenuta prevalente e alla quale per opportunismo i vertici del partito si sono accodati».
Così si è arrivati alla nomination del palazzinaro di New York. Adesso sarà l’esito dello scontro tra Donald Trump e Hillary Clinton a decidere in che direzione andranno gli Stati Uniti e gli americani.