Storia di un imprenditore schivo e visionario. La sua Vitra, al confine tra Germania e Svizzera, è la fabbrica più bella d’Europa. Ha arredato le vite di Sting e papa Wojtyla, Issey Miyake e John Malkovich
Non solo muri, polizia, fili spinati in Europa. Non solo file di profughi, attentati, periferie sofferenti. Ci sono ancora misteriosi angoli protetti, chissà se dalla dea Ricchezza o dalla dea Bellezza. Un angolo così è a Weil am Rhein, nel sud della Germania poco oltre la frontiera svizzera, dove c’è la Vitra, anzi il Vitra Campus, la fabbrica più bella d’Europa. Da Basilea ci si arriva in pochi minuti, col tram 8, col bus 55; e ora anche a piedi, su un sentiero nel verde di cinque chilometri che parte dalla celebre Fondation Beyeler di Renzo Piano. In quale altro luogo, nell’Europa incattivita di oggi, si può dire: stamattina vado in Germania in tram? Ma no, c’è il sole, quasi quasi ci vado a piedi.
La Vitra è come un santuario, per gli appassionati di cultura visiva. Un’industria svizzera leader internazionale nel mobile di design, con società in 17 Paesi, dall’Austria agli Usa, Italia inclusa. Sedie, poltrone, scrivanie Vitra hanno arredato le vite di Sting e papa Wojtyla, Issey Miyake e John Malkovich, le troviamo alla Commissione Europea come al Moma di New York, nelle case degli Agnelli o ai piani alti della Bundesbank.
Ma pochi sanno che il Vitra Campus, ideato dal proprietario Rolf Fehlbaum, l’Adriano Olivetti svizzero, ha avuto nel 2015 ben 350 mila visitatori, novelli pellegrini, più della Pinacoteca di Brera o di Palazzo Strozzi. E, tra questi, 120 mila paganti per ammirare il Vitra Design Museum di Frank Gehry, prima opera realizzata in Europa (1989) dal guru di Los Angeles; a cui, dal 3 giugno, si è aggiunto il cosiddetto Schaudepot. È la nuova sede realizzata da Herzog & de Meuron (gli autori della New Tate Modern a Londra) per la pazzesca collezione di Fehlbaum: 7 mila mobili, mille lampade, lasciti e archivi di figure come Charles e Ray Eames, Verner Panton e Alexander Girard. Qui sono esposti, a rotazione, 400 pezzi da fine Ottocento a oggi, passando per Le Corbusier, Bauhaus, Alvar Aalto, Ettore Sottsass, tutti gli eroi della modernità.
«Lo Schaudepot», sottolinea Fehlbaum, «era il deposito dell’acciaio. Qui siamo in un sito industriale, non in un museo. Nel Vitra Campus l’architettura non è esibizione, ma composizione». Metà del Campus è visitabile da chiunque tutto l’anno, 7 giorni su 7. I capannoni produttivi sono firmati da Alvaro Siza e Nicholas Grimshaw; l’area logistica dallo studio Sanaa di Tokyo; la Vitra Haus (2010) con gallerie, flagship store, ristorante da Herzog & de Meuron; il centro conferenze da Tadao Ando; si visita anche l’ex stazione dei pompieri di Zaha Hadid, sua prima opera in assoluto. Di recente, tra i prati curatissimi, si sono aggiunti la mega-scultura del tedesco Carsten Höller, dalla quale i turisti scendono giubilanti lungo uno scivolo di 38 metri tipo parco giochi; l’unità abitativa Diogene di Renzo Piano; il cupolone utopico del Dome di Buckminster Fuller. Per tacere degli spazi comuni, uffici, mensa, caffè, toilettes impeccabili. Intorno ordine, bellezza, e un senso forte di dignità del lavoro. Incontriamo Rolf Fehlbaum, l’artefice, nascosto tra i libri della biblioteca aziendale. L’ultimo olivettiano, cranio lucido, occhi chiari, veste in camicia bianca e completo nero. È schivo in società, riservato nei rapporti con i media. Vitra è una “mini multinazionale” di famiglia, non è quotata e non rilascia alcun dato economico. Conferma? «Sì. Noi non siamo la Novartis, che a Basilea ha dato vita a un intero quartiere di alta qualità urbana. Loro, per dimensioni e ruolo, hanno una diversa responsabilità verso l’opinione pubblica; noi il piacere di essere piccoli e privati», sorride ironico. Amministratore delegato è oggi sua nipote Nora Fehlbaum.
Ci dica, Herr Fehlbaum, con quest’ultima opera di Herzog & de Meuron il Campus si è completato? Lui non si sbilancia: «Già nell’89, quando aprimmo il museo di Gehry, mi dissero: Bravo, hai fatto un bel gesto, ora puoi metterti tranquillo e concentrarti sul prodotto... Non è andata così. Chissà, forse cambieremo destinazione a un edificio, forse arriverà qualcos’altro. Posso dire che Herzog & de Meuron sono cari amici, ma non per questo sono diventati gli “architetti della casa”». Intorno al Campus ci sono ancora terreni di proprietà, alcuni sono previsti per estendere la produzione. Il futuro è aperto.
Vitra è un’azienda di famiglia del tipo elvetico. «Siamo meritocratici, questo sì: se mia nipote Nora non avesse l’eccellente curriculum che ha, inclusa la Boston Consulting, non l’avremmo nominata Ceo. Qui vige soprattutto l’etica della responsabilità». E perché un imprenditore che conosce Max Weber non ha mai voluto quotarsi in Borsa? «Perché noi viviamo l’azienda come un progetto culturale. La nostra libertà di manovra è garantita solo da un controllo familiare. Se fossimo una public company», continua, «i soci mi chiederebbero, a ragione: per fare profitti a cosa ci serve una collezione di migliaia di sedie?».
Fehlbaum usa molto l’espressione «le nostre attività culturali». Ma, specifica, sempre funzionali al prodotto Vitra. «I proventi, molto buoni, dei nostri shop vengono reinvestiti nel Design Museum e nello Schaudepot, che oltre al biglietto d’ingresso hanno altre entrate grazie ai nostri sponsor». In questo senso, bellezza produce ricchezza. «Ma le assicuro che non farei un museo dell’auto, qui, se collezionassi auto». I collezionisti sono, ci dice la psicologia, degli accumulatori, e l’accumulatore può avere anche carattere ossessivo, ma questo è un tema delicato, difficile da trattare.
Vitra produce anche a Neuenburg in Germania, a Allentown in Pennsylvania, a Szombathely in Ungheria, è presente in Cina. «Ai tempi di mio padre fondevamo ancora l’alluminio. A lungo abbiamo prodotto plastiche. Oggi tendiamo più ad assemblare pezzi da noi progettati ma fabbricati esternamente. Non è solo questione di costi, ma di flessibilità, per gestire meglio le fluttuazioni del mercato internazionale».
Diversi studiosi hanno osservato che il Vitra Campus di Weil am Rhein ha un unico, vago termine di confronto in Europa: è la Ivrea di Adriano Olivetti, più di mezzo secolo fa. E in effetti una famosa foto in bianco e nero di Adriano è appesa ben visibile nell’ufficio di Basilea di Fehlbaum. Ce la mostra sullo smartphone. Da giovane laureato in Scienze sociali, con tesi sul pensiero di Saint-Simon, si interessò molto a quell’industriale visionario che mietè successi economici e culturali, ma fallì in politica. Che ne pensa Fehlbaum oggi? Risponde dopo una pausa, con estremo rispetto e sorprendente modestia: «Non conosco alcun’altra impresa del ventesimo secolo che abbia saputo integrare nel proprio modello così tanti aspetti cruciali della vita sociale e politica. Olivetti si occupò di pianificazione del territorio, dell’educazione dei lavoratori, fondò riviste, chiamò grafici, architetti, sociologi, intellettuali di punta, ma senza fagocitarli né corromperli. I prodotti dell’industria Olivetti erano culturalmente rilevantissimi. Un’esperienza unica, a quei tempi».
E per lei personalmente? «Io ritengo Olivetti un modello di riferimento per chiunque rifletta sui rapporti tra impresa e cultura. Noi, qui a Weil, facciamo un po’ di cose interessanti. Ma quello che realizzò lui è una storia potente, che ancora è in attesa di adeguato riconoscimento. Oggi è così facile accedere in tempi rapidi a informazioni da tutto il mondo, ma nell’Europa di allora fu un’esperienza senza precedenti. E tutto aveva preso avvio dal padre Camillo...». Che non aveva la stessa testa lucida, ma certamente una barba da profeta.