L'ideatore della campagna di “The Donald” ?è un uomo diventato ricco per i servigi ?ai despoti di mezzo pianeta. Ed è buon ?amico di Putin

Paul Manafort
Quando cinque mesi fa Donald Trump chiamò in soccorso il lobbista miliardario Paul Manafort per assicurarsi la nomina alle presidenziali, allora osteggiata da quasi tutti i super delegati del Grand Old Party, in Ucraina molti analisti fecero battute sarcastiche. La più moderata fu quella proferita dal politologo Oleg Kravchenko: «È un brutto segno per Trump. Eppure dovrebbe essere al corrente che l’ultimo cliente dello stratega è dovuto scappare in Russia».

Originario del Connecticut, dove è nato 67 anni fa, il potente lobbista, già nell’entourage di Ronald Reagan e di George Bush padre, ha trascorso gli ultimi dieci anni facendo il pendolare (di lusso) dagli Stati Uniti all’Ucraina. Inizialmente il suo quartier generale era a Donetsk, la città del magnate delle acciaierie del Donbass, Rinat Akhmetov, uno degli uomini più ricchi del pianeta, legato al Cremlino.

L’imprenditore aveva assoldato Manafort per aumentare ulteriormente il proprio business all’estero attraverso la sua fitta rete di conoscenze. Giocando a tennis sul campo della gigantesca residenza di Akhmetov, l’americano un giorno si trovò a sfidare un individuo dalla corporatura massiccia e dall’eloquio sgrammaticato. Ovvero il primo ministro Viktor Yanukovich, che godeva del sostegno finanziario del magnate dalla capigliatura simile a quella di Trump.

Stati Uniti
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Si trattava di un match combinato: il premier intendeva correre per le presidenziali e Akhmetov gli consigliò l’americano come spin doctor. «Non sono qui solo per le elezioni. Cerco di giocare un ruolo costruttivo per sviluppare la democrazia. Sto aiutando a costruire un partito politico», sottolineò Manafort nel 2007 in una delle sue rare dichiarazioni. Peccato che il candidato presidenziale e il suo partito si sarebbero rivelati tutto tranne che campioni di democrazia. Yanukovich sarebbe diventato sì presidente dell’Ucraina ma sarebbe anche entrato nella storia in seguito all’insurrezione popolare di Maidan che portò alla sua deposizione.

Per colpa di quest’uomo, protetto del presidente russo Putin, tre anni fa è scoppiata una nuova pericolosa crisi tra gli Usa, e di conseguenza tra l’Europa e la Federazione russa, che non si è ancora ricomposta. Ma l’attività del consulente yankee non ne ha risentito minimamente. Grazie ai suoi “consigli”, l’ex partito filorusso delle Regioni - di cui Yanukovich era stato a lungo il leader indiscusso - rinominato Blocco Opposizione, ottenne alle prime elezioni del dopo Maidan nell’ottobre del 2014 un insperato 9,4 per cento. Manafort dal suo arrivo in Ucraina aveva lavorato anche per promuovere gli interessi di alcune società americane usando i propri agganci nell’Empireo politico. Il successo era scontato.

Ciò che non è riuscito allo spin doctor, da sempre legato al partito Repubblicano statunitense, è stato il salvataggio di Yanukovich, se è vero che la Cia e molti esponenti di punta del Gop, a partire dal senatore John McCain, hanno avuto un ruolo nella sua defenestrazione. Possibile che Manafort non sapesse nulla? Possibile che non avesse ricevuto soffiate? Resta il fatto che, mentre il suo cliente fuggiva in Russia, lui rimaneva senza problemi nell’Ucraina destabilizzata dalla guerra del Donbass a tessere la tela per far rientrare in parlamento i superstiti dell’entourage di Yanukovich.

Eppure ci aveva provato Manafort a cambiare l’immagine del presidente che da giovane, quando viveva di espedienti, era finito in carcere per violenza e stupro. Lo aveva obbligato a parlare ucraino anziché in russo, gli aveva imposto un atteggiamento, almeno in pubblico, più sobrio e aperto al dialogo con l’opposizione. Ma non ce la fece a calmare la sua fame di denaro e lusso e a sradicare la sua abitudine a comportarsi da mafioso di provincia. La sua attitudine a giocare sporco, a far massacrare i giornalisti che scrivevano delle tangenti imposte dai membri del suo partito a chiunque avesse un’attività e della sua faraonica quanto inaccessibile residenza, non cambiò nemmeno dopo gli avvertimenti di Manafort. Che da decenni era, a sua volta, abituato ad avere come clienti dittatori sanguinari e imprenditori senza scrupoli, grazie ai quali ha ammassato una fortuna.

Nonostante sia impossibile sapere quanto abbia guadagnato, tanto per fare un esempio per la campagna presidenziale ucraina del 2006 (la pubblicazione degli emolumenti non è obbligatoria, ndr) secondo i media ha ricevuto un compenso attorno ai 20 milioni di dollari. Nulla per gli oligarchi ucraini creati da Putin - il figlio dello stesso Yanukovich, Sasha, Rinat Akhmetov, Dmytro Firtash, anche lui cliente di Manafort - tanto per un avvocato americano anche se già ricco di famiglia.

Laureato in legge a Washington 45 anni fa, Paul Manafort era rimasto a lungo nella capitale allo scopo di inserirsi nel tessuto connettivo del Gop. Dopo aver conquistato la fiducia dell’élite repubblicana, la sua carriera non si è più fermata, nemmeno di fronte ai crimini più odiosi. Perpetrati dai suoi clienti internazionali. Assieme ai soci Black, Davis, Stone e Kelly, fondò una società che fece lobbying per imprenditori senza scrupoli e in seguito diventò famosa per aver fatto gli interessi della cosiddetta “lobby dei torturatori”. Per questo, quando durante la convention di Cleaveland del mese scorso Trump accusò l’avversario Ted Cruz di usare metodi da Gestapo, molti repubblicani commentarono: «Deve averglielo suggerito Paul, avendone esperienza di prima mano».

Nella lobby dei torturatori c’era il feroce Jonas Savimbi, alla testa della milizia angolana “Unita”, che alla fine degli anni Settanta aveva incaricato la società americana di farle ottenere il sostegno finanziario degli Stati Uniti per alimentare la guerra civile e prendere il potere. Manafort & co. ci riuscirono senza intoppi. Reagan definì pubblicamente Savimbi, accusato di crimini contro l’umanità dall’Onu, addirittura «un eroe che lotta contro l’impero del male», cioè l’Unione Sovietica. Ma nel 1991 Savimbi perse l’appoggio degli Usa e dieci anni dopo fu ucciso in battaglia. Intanto Manafort e soci si erano messi in banca ben 600mila dollari, somma considerevole anche oggi. “Spy Magazine” scrisse che Manafort pilotò la negoziazione in modo che prevalesse la linea dura con il risultato di posticipare il cessate il fuoco. Tradotto: Reagan fece inviare tonnellate di armi e milioni di dollari ai guerriglieri, così la guerra civile continuò più a lungo e il numero dei mutilati e delle vittime aumentò esponenzialmente.

In un rapporto del 1992 redatto dal Center for Public Integrity, “Black, Manafort, Stone e Kelly” veniva annoverata come la società che fino ad allora aveva tratto più profitto nel fare affari con i governi stranieri accusati di violare i diritti umani della propria cittadinanza. In un solo anno, dal 1991 al 1992, la società diretta da Manafort aveva guadagnato tre milioni di dollari da quella che il Center for Public Integrity aveva soprannominato la “lobby dei torturatori”.

Dal 1990 al 1993, il governo del Kenya aveva corrisposto alla società americana un milione e 400mila dollari per fare pressione sul governo degli Stati Uniti allo scopo di ottenere più aiuti nonostante le purghe nei confronti degli avversari politici, omicidi e altre atrocità. Allora nel club era già entrato anche Mobutu Sese Seko, dittatore dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo) responsabile di torture oltre ogni immaginazione, detenzioni arbitrarie, omicidi politici e stupri.

Tra i primi a chiedere aiuto a Manafort ci fu il governo delle Filippine. Nel 1985, Manafort aveva annunciato che la sua società avrebbe rappresentato la Camera degli imprenditori ed esportatori delle Filippine legata a doppia mandata al dittatore Ferdinand Marcos, stretto alleato degli Usa, il cui regime aveva instaurato la legge marziale e stava commentendo ogni genere di violazioni. Nel 2004, Transparency International lo aveva inserito, assieme a Mobutu, nella lista dei 10 capi di Stato più brutali degli ultimi venti anni. Si stima che Marcos e la moglie Imelda abbiano sottratto almeno 10 milioni di dollari alle casse dello stato.

Manafort spiegò a un periodico statunitense di essere stato assunto dal dittatore per aiutarlo a diventare democratico: «Quello che abbiamo cercato di fare è stato organizzare elezioni secondo lo stile di Chicago più che secondo quello messicano». Purtroppo l’autore dell’intervista non aveva ribattuto che la guerra “sucia” (sporca) messicana era stata appoggiata e finanziata dagli Usa.

Nella lobby dei torturatori entrò anche Sani Abacha, il generale nigeriano che nel 1993 guidò il golpe che lo portò al potere e gli permise di imporre un regime violento e corrotto responsabile della morte per fame di migliaia di bambini. Nel 1998 Abacha assunse la società Manfort Davis & Freedman per convincere la Casa Bianca che aveva bisogno di aiuti per sviluppare la democrazia. Richard Davis, uno dei soci, nel 2000 fu tra gli organizzatori della campagna presidenziale di John McCain. Per dimostrare di non aver aiutato i peggiori regimi del pianeta, Davis sostenne che la gestione dei rapporti con questi era condotta solo da Manafort. La cui fama si era da anni diffusa ovunque nel mondo, anche in Arabia Saudita.

Nel 1980, Manafort fece pressione sul Congresso per conto della famiglia reale Saud affinché non approvasse il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Questa tappa della sua lunga e infame carriera è l’unica che il suo attuale boss non vorrebbe avesse mai raggiunto. Dopo numerosi sforzi Trump, ancora prima di assumere Manafort, era riuscito a convincere gli ebrei americani conservatori più influenti, come il re dei casino Sheldon Adelson (finanziatore anche di Bibi Netanyahu e fondatore del giornale più diffuso in Israele, la free press “Israel Hayom”) a sostenere la sua candidatura.

Per fortuna di Trump, negli Usa la maggior parte dei suoi fan ignora la storia del responsabile della sua campagna elettorale anche perché, finora, aveva cercato di tenersi lontano dalle telecamere. Manafort però da un paio di settimane è dovuto uscire allo scoperto per tentare di mettere a tacere le voci sulla divisione riemersa all’interno del Gop a causa delle dichiarazioni oltraggiose del suo capo nei confronti di Ghazala Khan, madre di un giovane capitano dell’esercito americano, di religione musulmana, caduto in Iraq.

Secondo gli ultimi sondaggi Trump ha perso ben sei punti in una sola settimana a causa di questa ennesima gaffe che colpisce l’esercito, ovvero ciò che più sta a cuore all’elettorato repubblicano, assieme al denaro. Nume tutelare da sempre anche di Manafort che non si fece alcuno scrupolo nel rispondere alla chiamata di Siad Barre, il signore della guerra somalo che con il colpo di stato del 1969 impedì lo sviluppo di un sistema democratico, con le tragiche conseguenze che hanno reso a oggi la Somalia uno stato fallito in preda a guerra civile, terrorismo islamico e povertà estrema. Dopo aver imposto il cosiddetto “socialismo scientifico” appoggiato dall’Urss, Barre cambiò rotta e chiese aiuto agli Usa attraverso Manafort che, per un anno di consulenze, avrebbe intascato 450mila dollari.

A meno di cento giorni dalle presidenziali, l’ascesa di Trump sembra essersi invertita non solo per l’oltraggio alla memoria di una “medaglia d’oro” al valore. I tanti americani ancora indecisi non hanno gradito i suoi elogi pubblici al presidente Putin, forse frutto della vicinanza del suo stratega elettorale al Cremlino, e nemmeno la richiesta - per poi sostenere ancora una volta di aver scherzato - di far piratare le email di Hillary Clinton. Anche in questo caso i suoi avversari interni ci hanno visto lo zampino di Manafort, che conosce bene l’ambiente russo e i metodi usati dallo “zar” per colpire gli oppositori.

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