E così Milano avrà una nuova fiera del libro e si chiamerà MiBook. Andrà ad aggiungersi a Book City, quinta edizione, e a Book Pride, rassegna riservata agli editori indipendenti. Fattore comune, il book: evidentemente la parola “libro” non è più di moda. Fa male la moltiplicazione dei saloni e delle mostre-mercato? Figuriamoci, però quando per lanciare un prodotto ci si rifugia nell’inglese, crescono dubbi e timori: se nemmeno per vendere libri in italiano si riesce a trovare uno slogan casalingo e convincente, è legittimo immaginare complessi di inferiorità, provincialismo, e pure sospettare che dietro l’idea non ci sia sufficiente retroterra, identità, progettualità. Esagerazioni? Forse. Ma i nomi sono spia di una vicenda estiva che ha terremotato l’impero dei libri, di cui quel poco che s’è capito è desolante, e che è tipica di un certo approccio italico a ogni questione che meriterebbe programmazione, ideazione, sorpresa, e che immancabilmente si svolge invece all’insegna delle camarille, dei localismi, della vendettucole.
In breve. Da quasi trent’anni, per la precisione dal 1988, una Fondazione cui partecipano Regione e Comune dà vita al Salone del libro di Torino affidato da otto anni alle cure editoriali di Ernesto Ferrero, un anziano intellettuale e manager di formazione Einaudi. A un bel punto l’Aie, la Confindustria degli editori, si ribella, non ci sta più, lancia un appello agli iscritti a disertare la kermesse torinese sostenendo che soffre di un impianto troppo vecchio (vero), che è troppo costosa (vero), ingabbiata dagli enti locali (improvvisamente?) e aggravata da un brutto scandalo - quattro arresti, turbativa d’asta e pure qualcosa di più sgradevole - di cui s’è occupata la magistratura (vero). E così propone di trasferire baracca e burattini a Milano. Niente più Torino. Come se i produttori proponessero di cancellare il Festival di Venezia in favore della Mostra del cinema di Roma.
La proposta cova per mesi, ma ogni decisione viene rinviata per via della campagna elettorale, non so se mi spiego. Alla fine gli editori si convocano in assemblea e votano: i grandi (in diciassette) scelgono la “newco” - of course - di Milano, capitale morale, dell’editoria e dell’Expo; in otto si astengono, Einaudi per buona creanza; Laterza si dissocia criticando il metodo; altri sette (tra i quali Feltrinelli, Marcos y Marcos, Gallucci) scelgono di farsi il loro salone. A Torino. Fronte degli editori spaccato e due manifestazioni dimezzate, antitetiche, concorrenziali. Con Alessandro Baricco che annuncia lo “sciopero degli scrittori” contro Milano. E di tutte e due non si sa che cosa saranno e faranno. Perché? Certamente ha pesato una questione di potere: a Torino Einaudi gioca in casa, e invece l’Aie vuole contare di più. Azionisti di riferimento dell’Aie sono Gems (Mauri-Spagnol), Mondadori e Rizzoli, tutti nati e radicati a Milano, gli ultimi due oggi fusi in un colosso. E poi Milano, storica antagonista di Torino, è in grande spolvero, vive una stagione di successi, “è di moda”.
E vabbè, è andata così, ma a che scopo? Gli editori faticano per migliorare i bilanci: i grandi inseguono economie di scala diventando sempre più grandi; i piccoli arrancano cercando di conservare nicchie di mercato; le librerie chiudono; le scuole hanno altro a cui pensare. Nel Bel Paese tracimano feste e festival: Milano, Torino, Roma, Mantova, Pordenone, e presentazioni di libri in ogni cittadina, frazione, contrada, per non dire delle variazioni sul tema di Modena (filosofia), Sarzana (mente), Genova (scienza) e via sfogliando. Ma nonostante ciò, in Italia si legge sempre troppo poco: ultimi in classifica in Europa; e di portare i libri nelle case e nelle scuole - dei giornali parliamo un’altra volta... - si ciancia senza costrutto e senza pesare. Tanto per capirci: i ministri Franceschini (Beni culturali) e Giannini (Istruzione) s’erano spesi per Torino. Ignorati.
Si dirà: ma Milano e book stanno a indicare sguardo all’estero, respiro internazionale. Speriamo, ma sembra arduo scalzare Francoforte, la più importante “buchmesse” (che a nessuno verrebbe in mente di chiamare “book fair” e traslocare a Berlino). E allora tutto questo can-can a che serve? Capita che sindaci e assessori cerchino di ovviare alle loro manchevolezze organizzando grandi manifestazioni, concerti, ricchi premi e cotillon. Non si vorrebbe che anche certi editori di libri seguano il cattivo esempio dimenticando che per promuovere cultura e lettura non basta un evento né fare sfoggio di inglese.
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