"Balilla blues" di Ivano Cipriani è la memoria vincitrice della 32° edizione del concorso annuale organizzato dall’Archivio diaristico nazionale e riservato alle scritture autobiografiche inedite degli italiani

Louis Armstrong batte Benito Mussolini. Il blues batte il fascismo. La libertà batte il regime. Vive di queste sfide paradossali e affascinanti la memoria scritta Ivano Cipriani, intitolata “Balilla blues” vincitrice della 32° edizione del Premio Pieve Saverio Tutino, il concorso annuale organizzato dall’Archivio diaristico nazionale e riservato alle scritture autobiografiche inedite degli italiani. La testimonianza di Cipriani, nato nel 1926 a Roma e destinato a una brillante carriera di critico e docente universitario nel secondo dopoguerra, arricchisce di un profilo umano unico il “vivaio” della memoria fondato nel 1984 dal giornalista e scrittore Saverio Tutino, in quel piccolo borgo della Valtiberina toscana divenuto per tutti appassionati di autobiografia e narrazione la “Città del Diario”.

Ivano Cipriani
Aggiunge la storia di un figlio del Ventennio nato da genitori comunisti, divenuto al pari di tutti i coetanei balilla e avanguardista e infine comunista egli stesso. Ma la storia di Ivano non è una storia di ideologia o di lotta politica, né di guerra sebbene gli avvenimenti storici del secondo conflitto mondiale restino sempre sullo sfondo del suo racconto.

La storia di Ivano è la storia di un pensiero libero, che si struttura come reazione alle limitazioni imposte dal regime autoritario in cui vive e che matura attraverso la scoperta delle cose belle della vita, delle emozioni che esplodono spontaneamente. Una sorta di “romanzo di formazione” transgenerazionale, scritto da un ragazzo che si sente oppresso dal contesto sociale che lo circonda e trova conforto in un linguaggio, “il” linguaggio che a partire dagli inizi del novecento conquista le fasce di popolazione più giovane: la musica.

Musica che il fascismo “arruola” al pari di ogni forma d’intrattenimento e comunicazione, nelle liturgie destinate a plasmare la mente del popolo, e più di ogni altro del popolo bambino e adolescente, il futuro della nazione. Cipriani descrive spesso nella sua memoria il cortocircuito familiare che si innescava ogni volta che, soprattutto a scuola, riceveva stimoli propagandistici che diligentemente riproponeva a casa. Ogni volta, i genitori si trovavano di fronte alla necessità di non rimproverarlo, per non spingerlo ad assumere atteggiamenti che in pubblico si sarebbero rivelati pericolosi, e il desiderio quasi insopprimibile di educare il figlio a rifiutare le manipolazioni mentali.

A scuola […] si imparava anche a cantare, nel senso che […] c'era una maestrina tutta pepe che veniva una volta alla settimana, portava un paio di classi in un'aula grande e organizzava un coro. Canzoni patriottiche o di Natale, s'intende, a seconda dell'andamento del calendario e delle cerimonie, a cui dovevamo partecipare. lo non cantavo molte bene, anzi malissimo, perché ero completamente stonato, al punto da farmi interdire dal coro: ma dovevo restare in aula e far presenza nei gruppo, visto che non sapevano dove collocarmi diversamente. Tuttavia, al fine di aver la sicurezza che stessi zitto, quando la maestra alzava le mani per dare il via al canto, gridava sempre; "Cipriani mi raccomando, zitto… Pronti?" abbassava la mani e tutti cantavano. In quell’ambiente, nel quale ero costretto a stare senza aprir bocca, […] nonostante tutto imparai anche una canzone patriottica, chiamata “L'inno dei legionari”. Mi pare, che dicesse: “Ce ne fregammo un dì della galera/ce ne fregammo della brutta sorte…" un motivetto che, dissero, cantavano le camicie nere di oggi pensando agli squadristi di ieri. Io riuscii ad impararla, anche perché il motivo era semplice e molto orecchiabile. E fu così che un giorno, appena entrato in casa, tutto allegro com’ero e tanto per far sentire che a scuola mi insegnavano un mucchio di cose, mi misi a cantare a squarciagola: "Ce ne fregammo un dì..." e, imprevedibile […] mi arrivò dritto sulla bocca un ceffone dì mamma, Rimasi di sale: mi picchiava perché stonato o c'era dell'altro? Forse nonna stava male? e strillai "Ma perché?". Mamma, che si trovava sempre nella situazione di quella che si arrabbia, ma poi non può dirne la vera ragione, urlò, agitatissima: “In questa casa di parolacce non se ne dicono…". "Ma che ho detto mai ?". “Fregammo, hai detto, e non lo dici più". Ma à una canzone patriottica che cantavano a scuola…”. "E allora la canti a scuola".

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Ci fu invece una musica che riuscì a superare ogni divieto e ogni censura, persino quella politica, e a penetrare nella vita e nell’intimo di Ivano, rivelandogli quello che i genitori non avevano mai potuto dire. Una musica venuta dalla lontana America a indicargli il cammino da intraprendere verso la liberazione dal fascismo, ben prima che i carrarmati dell’esercito alleato entrassero a Roma. Il blues. Mi misi all’ascolto di Armstrong con un certo scetticismo. La puntina gracchio? un poco sul bordo del disco poi trasmise un urlo di tromba alto, sempre piu? alto, prepotente, che mi strinse insieme le viscere e il cervello. [...] Credo che fu soprattutto quel suono di tromba a far saltare per un attimo il lucchetto delle mie catene invisibili.