Duemila morti in poche settimane: tutti sospetti spacciatori di droga ammazzati dai paramilitari del presidente Duterte. Che rivendica la sua politica di sangue: «Scordatevi i diritti umani, chi non si consegna sarà ucciso»  

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Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dal 30 giugno 2016, non è il tipo da trincerarsi dietro il linguaggio diplomatico. Se in meno di sette settimane la polizia e i paramilitari hanno ucciso quasi duemila persone considerate, a torto o a ragione, protagoniste di storie di droga, lui reagisce così alle critiche: «Dimenticate le norme sui diritti umani. Da presidente faccio quello che ho fatto come sindaco. Spacciatori, rapinatori, sfaccendati perdigiorno: è meglio che ve ne andiate. O vi consegnate o vi ucciderò». E poi: «Criminali, vi butterò nella baia di Manila così i pesci potranno ingrassare». Monito finale: «State attenti con me, perché quando io dico che farò qualcosa per il mio Paese, lo farò anche se devo uccidere o essere ucciso».

È tutto ufficiale quanto sta accadendo nelle Filippine, messo nero su bianco negli atti parlamentari. Il presidente ha mandato in Senato il suo capo della polizia a raccontare la mattanza in corso. Ronald dela Rosa, in tre giorni di audizione, ha dovuto anche aggiornare il conto dei morti che ha fornito dall’inizio della sua testimonianza. Per l’esattezza sono 1.916 al 22 di agosto scorso. Il numero uno delle forze di repressione ha spiegato che 716 ammazzati vanno attribuiti direttamente ad agenti di polizia, gli altri 1.200 sono vittime di «operazioni condotte al di fuori del controllo della polizia». Sono i “vigilantes”, cioè i paramilitari: arrivano sul luogo di operazione con tre o quattro moto senza targa, in borghese, e sparano ancora prima di parlare. I vigilantes hanno anche l’abitudine di lasciare sul corpo delle vittime un foglio di carta con elencati i reati e i torti attribuiti alle vittime. Per il capo della polizia, la politica del presidente funziona come deterrente: quasi 60 mila presunti trafficanti o spacciatori si sono consegnati per evitare di essere ammazzati.

In 42 giorni 1.916 morti ammazzati significa una media di oltre 45 al giorno. Ovviamente, quanto sta accadendo nelle Filippine ha suscitato interrogativi e prese di posizione sia all’interno del Paese sia nel resto del mondo. La voce più critica viene dalla senatrice Leila de Lima, la presidente della commissione diritti umani. Ma Rodrigo Duterte non si è scomposto: prima ha accusato la senatrice di ricevere soldi dai trafficanti; poi ha raccontato che lei ha una relazione con il suo autista, a sua volta accusato di bazzicare il mondo della droga; quindi la polizia ha arrestato due nipoti della senatrice, sempre in una operazione anti droga. «Leila de Lima se ne deve andare dalla commissione e dal Senato», è stato l’invito del presidente. Duterte ha poi diffuso una lista di 150 politici, militari e giudici indicandoli come collusi con i trafficanti. E ha intimato loro di arrendersi: «Mostratevi nudi davanti al mondo e fate vedere quanto siete disonesti». Le prove contro i 150? «Ci possono essere ma anche non essere. Io mi prendo da solo la responsabilità di questa lista».
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Il presidente risponde in modo sprezzante a chiunque non applauda le sue scelte politiche. Anche se le critiche vengono da organizzazioni internazionali a cui le Filippine aderiscono. Quando la francese Agnes Callamand e il lituano Dainius Puras, rispettivamente rapporteur delle Nazioni Unite sulle esecuzioni di Stato senza processo e sui diritti umani, hanno ricordato che politiche simili che «incitano alla violenza e all’omicidio sono fuori da qualsiasi legge internazionale», il presidente ha detto che «se non la smettono» il suo Paese può «tranquillamente uscire dall’Onu» e creare «una nuova organizzazione» che faccia perno sui Paesi asiatici, a cominciare dalla Cina, e su quelli africani che dovrebbero anche loro abbandonare il Palazzo di Vetro.

È solo poco tempo che Rodrigo Duterte, 71 anni, sindaco per due decenni di Davao, città di un milione e mezzo di abitanti del sud del Paese ma anche parlamentare nazionale, è diventato presidente. Ma sono ancora tutti irrisolti gli interrogativi su come abbia fatto a conquistare palazzo Malacanang, l’edificio presidenziale dove però si è rifiutato di abitare «perché è popolato da fantasmi». Rispondere che lui è l’ultimo dei campioni del populismo spuntati a ogni latitudine è sicuramente vero, ma non basta.

Nelle Filippine è scattato un corto circuito tutto da analizzare, che sarà materia per molto tempo e che si riassume in questo dato: Duterte è diventato presidente con oltre 16 milioni di voti (il 39 per cento) ma nel giro di un mese il gradimento nei suoi confronti è arrivato al 91 per cento. E non è un marziano spuntato dal nulla: gli ultimi quattro presidenti della Repubblica, appena furono eletti gli offrirono il ministero dell’Interno in segno di apprezzamento della sua politica di “law and order” a Davao.

Eppure proprio i risultati del predecessore di Duterte, Benigno Aquino III, non lasciavano immaginare questa deriva populista. Negli anni di Aquino, le Filippine hanno espresso una capacità di sviluppo come poche altre nazioni: dal 2010 al 2015 gli investimenti stranieri sono cresciuti in modo esponenziale, l’inflazione è rimasta bassa, il deficit import-export in riduzione, la valuta stabile, le rimesse dei milioni di emigrati in costante aumento. Nel 2015 ha occupato il quarto posto nel mondo come tasso di crescita, nel primo trimestre del 2016 è stato il Paese asiatico a crescere al più alto ritmo. Risultato: la classe media si è espansa, la povertà è diminuita. Nulla faceva prevedere questa deriva.

In realtà, le Filippine non hanno risolto il loro principale problema, pur essendo passati oltre 30 anni dall’uscita di scena del dittatore Ferdinando Marcos. Le scelte politiche del Paese e gli uomini che comandano vengono cioè sempre dalle stesse famiglie. In 73 delle 81 province in cui è diviso l’arcipelago, si ritrovano da sempre nei posti di responsabilità locale e nazionale i rappresentanti di 178 cognomi. Sono loro a far eleggere nel parlamento nazionale il 70 per cento dei membri. E il 40 per cento dei ricchi è riuscito negli ultimi dieci anni a convogliare nei propri affari il 75 per cento della ricchezza prodotta. Insomma, il paese è saldamente nelle mani di una oligarchia.

Rodrigo duterte di questa oligarchia fa pienamente parte: i suoi figli sono stati come lui sindaci, lui ha navigato in lungo e largo nella politica locale e nazionale. Ma al momento di presentarsi come candidato presidenziale ha vestito i panni dell’uomo anti sistema. Da quel momento gli elettori hanno visto i molti volti e le contraddizioni di Duterte. A cominciare dal linguaggio, che spesso arriva al turpiloquio e all’offesa. Nessuno è stato risparmiato: dall’ambasciatore americano Philip Goldberg («Ho detto al segretario di Stato John Kerry che il suo ambasciatore è un gay e figlio di puttana») fino a Papa Francesco, destinatario di parole simili solo perché era andato in visita a Manila a gennaio 2015 e Duterte aveva trovato il traffico bloccato al ritorno da un viaggio negli Usa.

Il nuovo presidente filippino ha poi sfoggiato la fama di donnaiolo seriale e ha ringraziato pubblicamente la Pfizer, produttrice del Viagra per consentirgli ogni volta che vuole di avere rapporti con le donne con cui ha una relazione. Ha una ex moglie, un’altra in carica ma che non ha sposato in quanto il divorzio non è riconosciuto nel Paese (e lui è d’accordo che non lo sia «per tutelare i figli») e due fidanzate di diversa età, la prima che lavora in un grande magazzino di Davao, reparto cosmetici, la seconda cassiera. A chi gli ha chiesto conto del suo stile di vita ha replicato così: «È la mia felicità. Se non mi volete come presidente perché ho 4 o 5 donne, allora votate per un altro candidato». La maggioranza dei filippini non ha voluto interrompere la felicità di Rodrigo Duterte.

Uomo contraddittorio lo è sicuramente, il nuovo presidente filippino. Ad esempio, mentre l’attenzione è tutta rivolta verso la sua “politica anti crimine”, lui ha detto che intende avere un confronto sulle questioni territoriali con i separatisti islamici: un’apertura mai vista, dopo decenni di tentativi per fare una legge che riconoscesse alcuni diritti della comunità musulmana. Poi ha dichiarato una tregua unilaterale con la guerriglia comunista e ha liberato dal carcere i suoi due capi storici per mandarli a Oslo, Norvegia, dove è stata siglata una tregua, primo passo verso colloqui di pace per porre fine a una guerriglia che dura dalla fine degli anni Sessanta..

Che cosa sarà la presidenza Duterte? Di certo sarà scritto un capitolo importante sul populismo al potere. Ma interessante sarà anche osservare che rapporto vorranno avere con lui i capi di Stato e di governo dei Paesi che più hanno relazioni con le Filippine. Se andranno a stringergli la mano e a proporgli affari, sarà poi difficile che possano dire di non sapere con chi avevano a che fare.