Il dibattito sulla gestazione per altri non può concentrarsi solo sul tema dello sfruttamento. Perché esistono anche casi di donne che agiscono in piena libertà e sono tutelate da contratti chiari

Non è mai facile per una madre dare via il proprio bambino. Qualunque sia la motivazione. Ma il grande fraintendimento intorno alla maternità surrogata, la pratica di portare a termine la gravidanza per conto di un’altra persona, è che la donna che ha in pancia il feto altrui ne sia a tutti gli effetti la madre. Certamente lo è fisicamente. E, in Italia, per il momento, anche legalmente, visto che la legge si adatta a usi e costumi vigenti (e non viceversa). Ma non nei fatti. Il bambino è figlio dei genitori che lo desiderano e lo attendono. Di coloro che lo cresceranno e se ne prenderanno cura. Che poi, nella stragrande maggioranza dei casi, sia spesso anche biologicamente figlio dei genitori in attesa è in fin dei conti dato meno rilevante.

Secondo mito da sfatare: la donna che si mette a disposizione di altri «è sempre una donna sfruttata». Lo può essere e di fatto lo è nei paesi in cui il lavoro non ha valore e i salari sono molto bassi. Dove lo sfruttamento è comunque condizione di vita. E anche in questi luoghi, dall’India all’Ucraina, è difficile giudicare se sia peggio lavorare 20 ore al giorno come colf in condizioni disumane o passare nove mesi con in grembo il figlio altrui.

Certamente è ingiusto parlare di sfruttamento in alcuni paesi occidentali dove la madre surrogata è ben retribuita e le sue condizioni mediche attentamente monitorate. Dove le condizioni dell’accordo sono dettagliate in un contratto. Condizioni che, se sembrano ingiuste ad alcune, possono risultare perfettamente accettabili ad altre.

Il caso
"Noi, donne ucraine, in offerta come mamme surrogate"
13/1/2017
Perché le donne non sono tutte uguali. C’è chi non ha difficoltà a dare alla luce figli e chi vede il traguardo come un miracolo. Chi non è in grado emotivamente di affrontare una gravidanza per conto altrui e chi invece ha già abbastanza figli suoi (concetto difficile da capire in un Paese a natalità vicina allo zero) da non avere problemi a mettersi a disposizione di altri. Certo, dietro compenso. Perché, e sfatiamo un terzo mito, portare avanti una gravidanza è comunque un’operazione faticosa per il corpo e lo spirito. Nessuno ne sottovaluta l’impatto, pur rifiutando paragoni pretestuosi con la donazione di organi o la prostituzione, sollevati da alcuni critici. La retribuzione è un giusto riconoscimento del lavoro svolto da una madre surrogata, come ben sanno le coppie che ne hanno fatto ricorso. Perché forse una donna può scegliere di rimanere incinta gratuitamente per una cara amica o un fratello. Ma non per una persona sconosciuta. Siamo donne, non sante.

Ma il più rumoroso pregiudizio contro la maternità surrogata è quello di un gruppo di femministe europee che la vedono come uno strumento di oppressione patriarcale che mira a togliere alla donna l’esclusiva sulla creazione della vita. Alimentando, senza rendersene conto, il mito cattolico della donna-Madonna, e togliendo alle donne vere quella possibilità (e capacità) di scelta che invece rivendicano nel caso dell’aborto. Eppure permettere agli uomini di diventare padri senza passare per l’intermediazione della figura di una madre attiva (perché per una donna sempre devono passare) è l’occasione per rivendicare una paternità laboriosa e consapevole che non si appoggi più sulla stampella della donna-madre. Questa figura mitologica che tutto sacrifica in nome della cura dei figli. E in cui non tutte si identificano più. O forse non si sono mai identificate.