L’area attorno all’antica città iraniana di Yazd, è ancor oggi il fulcro del culto persiano nato quasi tremila anni fa. Qui i sacerdoti alimentano il sacro fuoco e sono custodi di riti, tradizioni e misteri, Mentre nella società zoroastriana uomini e donne sono uguali 
in tutto (Foto di Pietro Masturzo per l’Espresso)

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"Il fuoco davanti a noi proietta un’ombra alle nostre spalle. Così noi procediamo verso la luce abbandonando la tenebra». È una fredda mattina di novembre a Teheran, l’anziano fissa negli occhi i visitatori europei mentre parla. Vuole esser certo abbiano afferrato ciò di cui parlò Zarathustra, il suo profeta. «Non dovrei nemmeno star parlando con voi, qui siamo nella Repubblica islamica e ci sono delle regole da seguire». Poi saluta educatamente ed entra nel tempio del fuoco chiudendo il portale di legno.

Gli zoroastriani, i seguaci di Zarathustra, sono una delle minoranze religiose riconosciute dalla Repubblica islamica dell’Iran, assieme a cristiani e ebrei. Le stime ufficiali parlano di una comunità di circa 35 mila persone in tutto il paese. Fede ancestrale della Persia, lo Stato khomeinista tollera la loro esistenza, garantendo loro anche un rappresentante in Parlamento.

Esistono però controlli e limiti: uno zoroastriano in Iran può praticare qualunque mestiere, ma gli è precluso l’accesso ai settori delle forze armate e di sicurezza. Vezzeggiata dai nazionalisti ai tempi dello Scià, dopo la Rivoluzione la comunità è stata sottoposta a un’occhiuta sorveglianza, ancora palpabile nel tempio di Teheran.
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Ma il fulcro della fede zoroastriana in Iran si trova a centinaia di chilometri a sudest, lontano dalla sottile paranoia che pervade la capitale. L’antichissima città di Yazd, patrimonio dell’Unesco, oggi ospita circa 4mila fedeli. Il suo tempio del fuoco è il più venerato del Paese: la facciata è dominata dal “fravahar”, l’uomo alato che rappresenta la parte divina dell’anima umana.

All’interno, protetto da un vetro spesso, lampeggia il fuoco sacro. Secondo gli zoroastriani il fuoco è un simbolo di Dio sulla terra. La leggenda vuole che quello custodito a Yazd arda ininterrottamente da millecinquecento anni. I sacerdoti, detti “mobed”, l’hanno alimentato con legno di mandorlo e albicocco ogni giorno, per secoli, nascondendolo nei tempi più duri.

Il centro storico di Yazd è uno dei più antichi del mondo, un dedalo astratto di edifici in fango, paglia e mattoni. L’incarnazione di un quadro di De Chirico. Sui tetti svetta una foresta di torri del vento, i “badgir”, che catturano l’aria rinfrescando gli interni durante le estati nel deserto. La vita della comunità qui si svolge alla luce del sole: passeggiando nel labirinto capita di incontrare un mercante zoroastriano con la “fravahar” in bella vista sull’insegna del negozio. Anche la torre di Markar, uno dei monumenti più noti della città, fu donata a inizio Novecento da un facoltoso zoroastriano di Bombay. Nel quartiere attorno al tempio si trovano scuole e centri per anziani istituiti, realizzati e gestiti dalla minoranza religiosa.

Lo zoroastrismo esiste da tremila anni e compete con l’ebraismo per il titolo di primo monoteismo del mondo. Secondo Zarathustra l’unico dio, Ahura Mazda, è impegnato in un eterno duello con le forze delle tenebre, guidate dall’antidio Ahriman. Al fedele spetta il compito di scegliere fra luce e oscurità, e contribuire con le sue azioni alla salvezza del mondo. Religione di Stato dell’antico impero persiano, lo zoroastrismo è decaduto dopo l’avvento dell’Islam nel VII secolo.

Nella società zoroastriana vige la parità di genere: «Per noi uomini e donne sono uguali in tutto, tanto che l’impero persiano dei sasanidi per due volte fu guidato da regine. Anche i nostri sacerdoti sono sia maschi che femmine», spiega un giovane. Usanze che non combaciano con l’Iran odierno. Le leggi sul matrimonio della Repubblica islamica stanno portando a un progressivo restringimento della comunità: «Se uno zoroastriano sposa una musulmana, o viceversa, è sempre lo zoroastriano a doversi convertire all’Islam. Se lo si aggiunge al fatto che noi non pratichiamo il proselitismo, i nostri numeri non fanno che scendere», aggiunge.

Nonostante tutto, l’antico retaggio di uguaglianza di genere resiste. Mazrae Kalantar è un villaggio in mezzo al deserto, qualche decina di chilometri a nord di Yazd, alle spalle di un complesso industriale per la produzione di ceramica. Una grande moschea sorge alle soglie del villaggio, ma quasi nessuno la usa per pregare.

Gli abitanti, una trentina di anziani, sono tutti zoroastriani. Il capo di questa piccola comunità è proprio una donna, Delnavos Javanmardi: «Soltanto i vecchi sono rimasti qui, ormai. Le nostre famiglie si sono spostate tutte in città, e solo nei fine settimana il villaggio torna ad animarsi».

Delnavos vive in una casa tradizionale con pianta quadrata, ogni braccio a simboleggiare uno dei quattro elementi. Nell’atrio centrale, sovrastato da una vetrata, un albero protende le foglie verso la luce. Poco lontano sorge il tempio del villaggio: «Non abbiamo le risorse per mantenere un fuoco eterno come a Yazd, quindi accendiamo la fiamma soltanto durante le festività», scuote la testa Delnavos. Il marito della donna, lunghi baffi bianchi a incorniciare un volto segnato dal sole, discende da una famiglia di guardiani di Chak Chak, il santuario zoroastriano abbarbicato sulle montagne all’orizzonte: «Per nove generazioni i suoi avi hanno reso servizio al tempio, se l’avesse fatto anche lui sarebbe stata la decima», racconta lei.

Ogni anno, a metà giugno, migliaia di zoroastriani vengono in pellegrinaggio a Chak Chak. Il tempio è inchiodato a una parete di roccia, aperto a una veduta vertiginosa sulla valle sottostante. La leggenda vuole che Nikbanou, figlia dell’ultimo gran re sasanide Yazdegerd, si sia rifugiata in questa vallata per sfuggire ai conquistatori arabi. E che Ahura Mazda l’abbia salvata facendola inghiottire dalle montagne. Il santuario si sviluppa attorno alla grotta in cui si sarebbe verificato il miracolo. Il nome, Chak Chak, è un’onomatopea per il rumore delle gocce d’acqua che da sempre filtrano dal soffitto della cavità. Il pianto della montagna per la principessa.

Il calendario zoroastriano è ritmato dai momenti liturgici. Alla vigilia del Nowroz, il capodanno persiano che tutti gli iraniani hanno ereditato dai tempi di Zarathustra, i fedeli salgono sui tetti e prima dell’alba accendono dei fuochi per dare il benvenuto ai fravahar dei morti, che in quella data tornano sulla terra. Quella notte i tetti di Mazrae Kalantar e degli altri villaggi zoroastriani si accendono di decine di luci.

I parenti defunti accompagnano l’esistenza degli zoroastriani. Chi ha avuto un lutto recente segna la propria abitazione con vernice bianca, lasciando l’impronta della mano, perché il passante possa dedicargli una preghiera.

Nel villaggio di Mobarake, a sud di Yazd, una famiglia sta celebrando il rito che segna un anno dalla scomparsa del suo patriarca. Il figlio apre la porta ai visitatori stranieri: «Venite, non importa che siate cristiani o musulmani, preghiamo tutti l’unico Dio».

Da un angolo della stanza si diffonde la litania che il mobed, vestito di bianco, canta per l’anima del defunto. Parenti e amici alzano le mani al cielo per la preghiera, mentre l’incenso si spande nell’aria. «Non ci limitiamo a un funerale per i nostri morti - spiega il sacerdote durante il pranzo pantagruelico che segue la cerimonia -. Celebriamo un rito una volta al mese per dodici mesi, dopo la morte. Poi una volta l’anno, per trent’anni». Passata quella data, le anime lasciano l’intramondo cui approdano dopo la morte e ascendono ad Ahura Mazda. Ciò, ovviamente, se hanno operato bene: «Buoni pensieri, buone parole, buone azioni. Questa è la linea di condotta lasciataci da Zarathustra», commenta il sacerdote.

Fino a sessant’anni fa le usanze funebri erano diverse da oggi: le salme venivano portate in alte strutture circolari in mezzo al deserto, le torri del silenzio, in cui venivano spolpate dagli avvoltoi, le ossa venivano poi eliminate sciogliendole nella calce. Così il corpo tornava interamente al creato. La tradizione è stata poi vietata dal governo, anche se molti zoroastriani la ricordano con nostalgia. Oggi i defunti finiscono in tombe di cemento, sigillate ermeticamente per impedire che il cadavere, impuro, contamini la natura. Le torri del silenzio, ormai inutilizzate, svettano dappertutto nel deserto che circonda Yazd.

Il passato è un’ossessione per molti membri della comunità. Bahman Shahgoshtasbi è un 75enne ritto come un cipresso, e conosce un segreto. C’è un vicolo anonimo, subito fuori dal centro di Yazd, in un quartiere residenziale. In fondo a quel vicolo c’è una porta discreta che conduce a un antico palazzo, nascosto dalle case circostanti.

Quel palazzo appartiene da generazioni alla famiglia Shahgoshtasbi, ora è di Bahman. L’anziano passeggia tra le aule in rovina, mura di fango sbriciolate e archi solitari a incorniciare il cielo. «Questo è uno degli edifici più antichi di Yazd, è nostro da sempre. Uno dei miei antenati fu governatore per conto del khan mongolo Hulagu», racconta. Nella sua configurazione attuale il palazzo sembra risalire all’epoca Qajar (1781-1925), ma secondo l’anziano le fondazioni furono poste in epoca preislamica. Primo di quattro fratelli, Bahman è l’unico a cui il padre abbia raccontato le leggende sulla storia della sua famiglia. Un’epica tramandata oralmente, in cui si narra della sopravvivenza degli zoroastriani in secoli difficili. In una stanza parzialmente ristrutturata l’uomo custodisce un’icona di Zarathustra. Sul pavimento i resti delle offerte e le ceneri di un fuoco votivo.

Simile al palazzo di Bahman, lo zoroastrismo continua a essere parte dell’identità iraniana, anche se invisibile a una prima occhiata. L’islam sciita, oggi maggioritario nel Paese, condivide con la religione ancestrale i caratteri di una fede nazionale, imperiale, intransigente. Le due religioni sono accomunate anche dall’attesa messianica: la fine dei tempi arriverà e con essa il Salvatore, che gli sciiti chiamano Mehdi e gli zoroastriani Saoshyant. La metafisica preislamica, infine, è stata traghettata da filosofi come Sohrawardi e Molla Sadra all’interno del pensiero musulmano di Persia. L’incontro ha generato una filosofia profonda, un paesaggio del pensiero inondato di luce, simile alla distesa dei tetti di Yazd quando il sole è al suo culmine.

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