Cantore delle nevrosi di oggi. Regista controcorrente. Grazie alla sua sferzante ironia riuscì ad alienarsi le simpatie di tutti: dai borghesi ai compagni di partito

Elio Petri
Il dieci novembre 1982 Elio Petri muore prematuramente di cancro, mentre si trova in un periodo a dir poco infausto della sua vita e della sua carriera. Nel 1976 il regista aveva infatti messo in scena nel suo film “Todo modo”, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, la morte violenta di Aldo Moro. Una sorta di involontaria profezia che, come è tragicamente noto, si era avverata due anni più tardi per mano delle Brigate Rosse.

A Petri non basterà ribadire con forza, e fino all’ultimo giorno di vita, il suo profondo disprezzo per gli autori dell’omicidio politico più celebre degli anni di piombo: il premio Oscar resterà considerato, da molti “uomini qualunque”, una sorta di “mandante morale” dell’omicidio dell’allora presidente della Democrazia Cristiana. Neppure la solidarietà di Leonardo Sciascia - che loderà Petri per aver avuto il coraggio di inscenare nel proprio film il processo popolare alla Dc auspicato da Pasolini - sarà sufficiente per riabilitare l’immagine pubblica del regista.

Come se non bastasse pochi anni prima, durante il famoso contro-festival svoltosi a Venezia nel 1972, Petri non aveva mancato di inimicarsi anche buona parte del pubblico e della critica più engagé. Il secondo film della sua “trilogia della nevrosi” -“La classe operaia va in paradiso” - incontrerà infatti una rabbiosa accoglienza da parte della cosiddetta “controcultura”, a causa dell’immagine volutamente caricaturale del sindacato, del Partito e degli intellettuali “operaisti” che emergeva dalla pellicola.

Questo “sfregio” costerà a Petri critiche violentissime da parte di quasi tutti gli ambienti militanti della sinistra italiana, a cui evidentemente poco interessava il suo desiderio di far brillare nel film – in tutta la sua brutalità, ma anche nella sua eroica banalità – la nuda vita di un semplice operaio. Alle pesanti accuse rivoltegli da coloro che, fino a quel momento, lo aveva portato in palmo di mano come il maître à penser del cinema impegnato, Petri rispose con queste parole: «Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia».

“La classe operaia va in paradiso” ruota infatti intorno alla mutilazione subita dall’operaio metalmeccanico milanese Lulù (Gian Maria Volonté), il quale – dopo aver passato tutta la vita a fare il cottimista, e venire perciò odiato dai compagni più politicamente impegnati – perde un dito rovistando a mani nude nel tornio per non perdere il tempo di produzione che gli sarebbe valso qualche migliaio di lire in più alla fine del mese. La perdita della falange fa esplodere nel trentunenne Lulù - oltre all’impotenza sessuale - la frustrazione e l’angoscia rimaste latenti nei precedenti quindici anni di fabbrica. L’operaio si impegna così nella lotta sindacale (ed extra-sindacale) contro il “padrone”, ricavandone in fondo solo di perdere il lavoro e di essere abbandonato da tutti (moglie e figliastro compresi). Tutto ciò che ottiene alla fine del film - come premio per la sua lotta, e grazie allo sforzo dei compagni della fabbrica - è semplicemente di recuperare quel lavoro che, oltre ad avergli portato via un dito, lo riduce giorno dopo giorno a macchina e merce, indegna persino di accogliere su di sé i raggi del sole.

a nevrosi del lavoro viene forse condensata da Petri nel modo più toccante quando Lulù, dopo aver perso il dito, si reca in manicomio a trovare un vecchio compagno di fabbrica, il Militina (Salvo Randone). Il Militina, da cui Lulù si reca per farsi controllare la busta paga, confida all’operaio che uno dei primi segni della follia è stato quello di credere di essere ancora in fabbrica mentre, seduto al tavolo di casa, a cena, si sforzava ossessivamente di mantenere le posate perfettamente allineate.

Un po’ come se un odierno impiegato del call center si sorprendesse oggi, mentre siede a tavola con la propria famiglia, a rispondere al pianto dei propri figli con lo stesso aplomb con cui è costretto a gestire le lamentele dei clienti; o come se una barista, una volta arrivata a casa, ascoltasse i problemi del compagno con la stessa insofferenza con cui ascolta quelli dei suoi avventori più chiacchieroni. Il fatto che molti lavori siano divenuti oggi, come si dice in certi ambienti, “immateriali”, non rende affatto l’alienazione meno profonda. Anzi, il dramma odierno dell’alienazione e della nevrosi del lavoro sta forse proprio tutto nel fatto che il “prodotto”, in cui quotidianamente ci alieniamo, sempre più spesso non è altro che il nostro rapporto con gli altri, la nostra stessa socialità. La “merce” che – specialmente nel cosiddetto settore dei “servizi” - siamo quotidianamente costretti a “produrre” e “scambiare” in cambio di denaro, a ben guardare, non è altro che un nostro preciso modo di essere con gli altri; un “modo” che, impercettibilmente, giorno dopo giorno, si impadronisce di noi e ci trasforma.

Borghesi sotto attacco
La “trilogia della nevrosi” (trittico di film che comprende “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, “La classe operaia va in paradiso” e “La proprietà non è più un furto”) si confronta dal di dentro con quella epocale trasformazione della società italiana a cui Pasolini ha dato il nome di “mutazione antropologica”. Con questa espressione ci si riferisce, ancora oggi, al rapido “imborghesimento” - e alla possente omologazione culturale ai valori consumistici americani – che avrebbe investito la classe operaia (e tutto il ceto popolare italiano) tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Si trattava, allora, di una mutazione sociologica e psicologica esattamente inversa rispetto a quella che stiamo vivendo oggi: la altrettanto rapida ri-proletarizzazione di quella “classe media” - e di quel “popolo dei consumatori” – che a partire dalla fine degli anni Ottanta ha preso il posto della “vecchia” classe operaia.
[[ge:rep-locali:espresso:285298363]]
Nella trilogia Petri si impegna ad approfondire proprio le ricadute politiche, e più intimamente psicologiche, di quella prima “mutazione”. L’ultimo film della trilogia, “La proprietà non è più un furto” (1973), comincia con un monologo del protagonista della storia, il ragionier Total (Flavio Bucci), un giovane impiegato di banca che sviluppa un’allergia psicosomatica al denaro (che è costretto a maneggiare, ogni giorno, in gran quantità). Il desiderio di sottrarsi alla nevrosi del denaro porta inesorabilmente Total a diventare un ladro, e a perseguitare Il Macellaio (Ugo Tognazzi), un affarista senza scrupoli che l’impiegato aveva servito molte volte allo sportello della banca fino a quando non aveva perso il lavoro a causa della sua “allergia”.

Le parole di Total, su fondo nero, aprono il film come l’inizio di un incubo: «Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me. Siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento.[...] Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. Ma nella lotta legale, o illegale, per ottenere ciò che non abbiamo, molti si ammalano di mali vergognosi, si riempiono il corpo di piaghe dentro, e fuori. Tanti altri cadono, muoiono, vengono esclusi, distrutti, trasformati, diventano bestie, pietre, alberi morti, vermi. Così nasce l’invidia, e in quest’invidia si nasconde l’odio di classe, decomposto in egoismo e, quindi, reso innocuo. L’egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà. Io sento che questa condizione mi sta diventando insopportabile [ride istericamente], così come lo sta diventando per molti di voi».

Nei film della trilogia il nucleo incandescente dell’intimità, la “nevrosi”, e le più grottesche aberrazioni collettive del potere, della violenza e della mercificazione, ci si fanno incontro come il dritto e il rovescio di un’unica fodera. Identificandoci con i personaggi di Petri, per un attimo, riusciamo con un brivido a sentire sulla pelle fino a che punto, spesso, siamo proprio noi – nel “micro” delle nostre vite quotidiane e attraverso le nostre nevrosi – ad alimentare e socializzare le aberrazioni collettive di cui amiamo sentirci vittime: un insegnante che, per invidia, prende di mira un alunno più intelligente di lui; un marito che, ferito nel suo narcisismo, mette le mani addosso alla moglie perché lo ha tradito; una persona ipocondriaca, che diventa xenofoba e razzista per paura delle supposte “malattie” portate dagli immigrati; un giovane artista che, non riuscendo a sfondare, si suicida per non dover accettare il “tragico” destino di una vita banale; o ancora, un figlio che, rimproverando all’anziano padre di non aver investito abbastanza sul suo futuro, lo abbandona a marcire in un ospizio negandogli ogni affetto e cura; oppure un ministro degli esteri che, per timore di inimicarsi un importante partner economico, rinuncia a ricercare le verità sull’omicidio politico di un suo concittadino.
Gian Maria Volonté nel film "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto"

La tentazione di cambiare canale
È così che, socchiudendo gli occhi, dopo aver guardato “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, potrebbe capitarci di sostituire alla figura del commissario una di quelle che, negli ultimi quindici anni, hanno polverizzato i diritti dei lavoratori e destabilizzato due mezzi continenti con le loro scellerate guerre economiche. Potrebbe capitarci di immaginarli a capo chino - proprio come il protagonista del film premio Oscar - mentre confessano ai “custodi” della Legge del mercato e dell’ “interesse globale” le loro colpe, tormentati da incubi di bambini martoriati dalle bombe o di giovani madri costrette a rubare (o prostituirsi) per sopravvivere alla crisi. Potremmo addirittura, socchiudendo ancora un poco gli occhi, vedere quegli stessi “custodi” della Legge cancellare, con un colpo di spugna, ogni misfatto dei loro burattini mentre – una volta di più – si apprestano a scrivere sul cumulo di sogni ammassati nella discarica della storia l’angosciante monito kafkiano con cui si conclude “Indagine”: qualunque impressione egli faccia su di noi, egli è un servo della Legge, quindi appartiene alla Legge e sfugge al giudizio umano.

Come ci capita di fare con quegli incubi che ci parlano di noi e delle ragioni profonde delle nostre nevrosi; quei brutti sogni che non vogliamo ricordare perché ci angoscerebbe troppo farci i conti, così allo stesso modo – collettivamente e individualmente – abbiamo “rimosso” Elio Petri. Come la mamma che – per proteggerlo, o forse per guardare qualcos’altro – dice al figlio adolescente, mentre mangia, di cambiare canale quando arrivano le immagini dei bambini siriani martoriati dalle bombe, allo stesso modo lo abbiamo “censurato”. Abbiamo cercato di dimenticarlo come cerchiamo di dimenticare la morte, l’orrore quotidiano – ancora attualissimo – della violenza di Stato e della corruzione, la vertigine del non-senso, gli “incidenti” sul lavoro, le nostre piccole e grandi nevrosi.

All’alba della nuova mutazione antropologica in cui siamo immersi, e che forse non siamo ancora in grado di riconoscere in tutta la sua portata per un eccesso di prossimità, l’opera di Petri potrebbe aiutarci a coltivare uno speciale tipo di coraggio: quello di tornare ad aprire gli occhi, a spalancarli, su ciò che – in primo luogo di noi stessi – ci dispiace e ci fa più male. Solo dedicandoci a questo esercizio – che è forse molto più profondamente politico di qualsiasi altro – potremo un giorno riuscire anche noi, come ha fatto Petri, a guardare davvero negli occhi la nuova ed epocale “mutazione” di cui siamo parte.