In Italia le donne con handicap, circa un milione e 700mila, sono doppiamente discriminate. Grazie a un progetto europeo nato a Genova a decine viaggeranno per l'Europa. Per studiare il fenomeno e proporre delle soluzioni

Per Alessandra Fabbri, maestra in una scuola elementare di Genova, le difficoltà arrivano all’ora di pranzo. «Tra la mensa e le aule ci sono due piani di scale», racconta. «Abbiamo l’ascensore per i bambini disabili. Ma c’è un problema non previsto: nella mia classe, la disabile sono io».

La psicanalista Maria Cristina Pesci invece vive e lavora a Bologna. Quando è andata all’ospedale per partorire, era accompagnata dalla madre. «Io avevo il pancione e mia mamma 65 anni, ma ai medici è venuto il dubbio che fosse lei da ricoverare», ricorda. «E’ dura pensare che una donna sulla sedia a rotelle possa avere un figlio».

Sono storie della vita di tutti i giorni quelle di Alessandra e Maria Cristina, tra le tante protagoniste di un progetto europeo dedicato alle donne disabili coordinato dall’Università di Genova. Sei i Paesi coinvolti, una la domanda di fondo: «Una donna disabile può essere indipendente e avere le stesse possibilità di un uomo?».

La ricercatrice freelance Cinzia Leone se lo è chiesto prima di ideare RiseWise, un progetto di cooperazione Horizon 2020 che si occupa di “Woman with disabilities in social engagement" (Donne con disabilità nell’impegno sociale): per quattro anni interesserà atenei, associazioni e imprese di Italia, Austria, Svezia, Spagna, Portogallo e Turchia.
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Essere disabili nella giungla italiana
4/3/2016

«Le donne disabili sono vittime di una doppia discriminazione», spiega la coordinatrice di RiseWise Cinzia Leone durante la tappa genovese del progetto. «Alla discriminazione di genere si aggiunge infatti quella della disabilità. Perché se la donna è spesso vista come un "oggetto",  il fatto di essere disabile la rende un oggetto difettoso».

RiseWise punta a favorire l’inclusione delle donne con disabilità fisica facendole diventare protagoniste della ricerca. Sino al 2020 a decine viaggeranno in Europa per tenere seminari e trovare risposte ai loro problemi: incroceranno gli studi sul tema con le tecnologie esistenti e le buone pratiche di ogni Paese, come l'assenza di barriere architettoniche in Spagna o l'inserimento sociale in Svezia.

«L’Italia è all’avanguardia per il volontariato», assicura Cinzia Leone. «Ma il disinteresse è tale che in un Paese dove i disabili sono tra i 3 e i 4 milioni, secondo i dati Istat e Censis, gli ultimi studi approfonditi sulle donne disabili risalgono al 2008».

Le donne disabili italiane sono circa un milione e 700 mila: come gli uomini, forse di più. «Ma sono meno visibili, perché più emarginate dal punto di vista sociale e lavorativo». Secondo i dati di Istat del 2013 lavorano solo il 17,3 percento delle donne disabili tra i 15 e i 64 anni: il 6,5 percento in meno rispetto agli uomini.

ALESSANDRA, MAESTRA E INVALIDA
Tra le disabili lavoratrici c’è la maestra Alessandra Fabbri di Genova, 49 anni. Si muove con le stampelle a causa di una paraparesi spastica avuta alla nascita: dopo una laurea in lettere e una in scienza dell’educazione, ha conseguito un master in bioetica clinica e un dottorato in filosofia. «Nel frattempo sono riuscita a diventare maestra di ruolo seguendo l’iter per le persone “normali”, e cultore della materia in Filosofia morale e bioetica all’università» racconta «Il problema è che mentre le scuole si sono adeguate alla disabilità degli studenti, la disabilità degli insegnanti non sembra prevista».

Il Ministero dell’Istruzione conferma che non esistono rilevazioni sul numero degli insegnanti disabili, che hanno però un regime di favore in caso di trasferimento, supplenza o immissione in ruolo. Il 71 percento delle scuole italiane – sottolinea il Ministero - ha completato o sta completando l’abbattimento delle barriere architettoniche, che agevola senza differenze bambini e docenti disabili.

Alessandra Fabbri non è d’accordo su quest’ultimo punto e fa l’esempio degli spostamenti interni dentro la sua scuola, l’istituto comprensivo Barabino di Genova Sampierdarena. «L’edificio ha diversi piani e un ascensore. Se lo usa un bambino disabile non ci sono problemi. Ma se invece è l’insegnante a doverlo prendere, dal momento che non ci sono alternative l’insegnante smette di essere autosufficiente». Mentre le aule sono al secondo piano, la mensa è a piano terra: e negli spostamenti la classe non può essere lasciata da sola. «Ho sempre trovato colleghi disponibili a darmi una mano», continua la maestra Fabbri. «Ma non può essere questa la soluzione. Il problema è strutturale».
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Essere disabili nella giungla italiana
4/3/2016

Dopo aver rifiutato un ruolo da impiegata amministrativa nella scuola, all’inizio dell’anno scolastico Alessandra Fabbri ha rinunciato a una classe propria per non essere di peso ai colleghi. Ora insegna italiano ai bambini stranieri dell’istituto. «Capisco i problemi organizzativi e riconosco i miei limiti. Il progetto di cui mi occupo ora mi piace, quindi non mi sento discriminata», assicura senza polemica. «Ma se l’edificio fosse fatto diversamente potrei avere una classe come gli altri insegnanti. Sarebbe bello se almeno gli edifici pubblici fossero adeguati in modo di darci la possibilità di scegliere: sembra che i disabili motori debbano rassegnarsi a fare lavori da ufficio».

COSA DICE LA LEGGE IN ITALIA
Dal punto di vista legale la questione sollevata dalla maestra Fabbri è intricata. Come spiega la professoressa Luciana Guaglianone, docente di diritto del lavoro all’Università di Brescia, tra i partner di RiseWise, la normativa italiana sulla disabilità intreccia fonti internazionali, europee e nazionali. «Dal 1968 esiste l’obbligo di assunzione per quote, nel settore pubblico e privato, anche se è solo dalle modifiche del 1999 che si parla di valorizzare le potenzialità dei disabili individuando l’occupazione a loro più idonea», spiega la professoressa Guaglianone. «Dal 2013, grazie a una condanna della Corte di Giustizia Europea, la normativa italiana si è evoluta al pari delle norme comunitarie». I datori di lavoro sono ora obbligati ad adottare alcune misure (relative per esempio alla sistemazione dei locali, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, purché per il datore di lavoro non sia previsto un onere sproporzionato.

«Il disabile non è più visto solamente in ottica assistenziale, come un peso cui dare un impiego senza preoccuparsi del fatto che questo gli possa piacere o meno», continua la professoressa Guaglianone. «Ora è considerato una persona utile che apporta un lavoro qualificato. Certo, è dura che i diritti vengano assicurati solo perché c’è scritto in una legge: ma intanto questa è la base teorica con cui chiederne il riconoscimento».

«STRADA ANCORA IN SALITA»
Vincenzo Falabella, presidente di Fish-Federazione italiana per il superamento dell’handicap, è molto critico. «La normativa non viene applicata perché manca la volontà politica. Servono risorse per l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici e sui mezzi di trasporto: se un luogo di lavoro non è accessibile ed è difficilmente raggiungibile, il disabile è penalizzato». Sul tema della doppia discriminazione delle donne disabili la Fish è da sempre in prima linea. Tramite il Forum Italiano Disabilità fa inoltre parte del Forum Europeo sulla Disabilità che a inizio settembre ha approvato la traduzione – realizzata dal centro Informare un'H – del “Secondo manifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell’Unione Europea". 

«In un Paese dove sopravvive lo stereotipo che sia la disabilità a decidere il tipo di lavoro cui si è adatti, ci ritroviamo con non vedenti laureati che fanno i centralinisti», continua Falabella. «Per le donne è ancora più difficile. Proprio per questo lo scorso anno l’Italia ha ricevuto un richiamo dal comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità: mancano misure rivolte alle esigenze delle donne e delle ragazze disabili».

«DISCRIMINATE ANCHE DALLE ALTRE DONNE»
Le associazioni italiane che partecipano a RiseWise confermano la difficoltà delle loro associate. Tra queste c’è l’Aism-Associazione italiana per la sclerosi multipla. «La malattia riguarda 114 mila persone in Italia, per due terzi sono donne», spiega il referente di Aism per RiseWise, Marco Pizzio. La presidente della sezione genovese di Aism, Enza Costa, 53 anni, si è ammalata quando ne aveva 27. «La diagnosi arriva nel pieno della vita di madre, di lavoratrice e di donna», ricorda. «Il tacco 12 non serve più, il futuro di una donna con la sclerosi multipla è la zeppa».

Sul tema della femminilità delle disabili si sofferma anche la psicanalista Maria Cristina Pesci, che partecipa a RiseWise tramite l’Aias-Associazione italiana assistenza spastici. «Nei questionari che stiamo facendo in tutta Italia ricorre un concetto: le disabili non si sentono riconosciute come donne», racconta la dottoressa Pesci. «Il sesso e l’amore diventano un tabù. Eppure anche le donne disabili hanno desideri affettivi, sessuali e di maternità».

Maria Cristina Pesci è sulla sedie a rotelle per colpa di una paralisi cerebrale infantile. Ha un compagno e tre figli, ma sa bene che per molte donne come lei una vita così è un miraggio. «Agli occhi della società non solo noi donne disabili non rispecchiamo il modello di bellezza delle altre donne», dice amaramente. «Non abbiamo nemmeno “l’efficienza” che a livello di stereotipo le caratterizza, ovvero la capacità di occuparsi della casa e del compagno. Questo ci esclude dalla vita sociale». L’esclusione non interessa solo il mondo maschile. «Spesso è difficile coinvolgere le associazioni femminili che si occupano di diritti, femminismo o violenza di genere», continua la dottoressa Pesci. «Facciamo parte della comunità delle donne, eppure siamo percepite come neutre, senza genere. Noi donne disabili siamo praticamente invisibili».

«VOGLIAMO PROPORRE ALTRI MODELLI DI VITA»
Partendo dall’analisi dei bisogni e delle barriere che ciascuna donna disabile incontra nella sua vita, il progetto RiseWise cerca di proporre modelli di vita alternativi. Dopo le prime tappe a Roma, Madrid e Genova, il 5 ottobre RiseWise è stato presentato presso la Camera dei Deputati su invito del Ministero del Lavoro. Il prossimo marzo il progetto sarà in Portogallo, a Braga, dove Aism sta studiando con l’università locale il progetto di una app per verificare l’accessibilità del territorio. «Lo spostamento fisico delle donne con disabilità non è un fatto scontato», spiega la coordinatrice del progetto, Cinzia Leone. «Le donne hanno in molti casi un livello di istruzione e di reddito più basso degli uomini, e restano spesso relegate in casa. In una discriminazione di livello mondiale dove l’Italia non fa eccezione, RiseWise è un modo per coinvolgere le donne disabili e renderle visibili a università, imprese, associazioni. In attesa che diventino visibili sempre».