All'inizio furono i blog. Poi i tweet di Renzi da Palazzo Chigi. E ancora: la lotta senza quartiere al nemico grillino. Fino alla fase odierna: in cui i democratici oscillano tra voler fare gli influencer come Maria Elena Boschi e scegliere il silenzio digitale come Marco Minniti

Da “lo smacchiamo!” a #ciaone, da Bersani immortalato (e condiviso) mentre beve una birra fino a quell’«arrivo, arrivo» che ha scandito l’ingresso di Renzi a Palazzo Chigi. Ma a risalire nei meandri della memoria si arriva alla “festa Facebook” per 500 amici organizzata da Walter Veltroni a fine 2008. I primi dieci anni di vita del Pd hanno coinciso in maniera quasi perfetta con la necessità per la politica di confrontarsi con quelli che chiamavamo “nuovi media”. Si può fare la storia del primo decennio di vita del Pd attraverso i suoi social network. Un rapporto di amore-odio, negli stessi anni in cui il partito della Rete, Il Movimento 5 Stelle, raggiunge i suoi trionfi elettorali.

In principio furono i blog: negli anni della fondazione, i democratici di ogni ordine e grado si incontravano sulla piattaforma “il Cannocchiale”: da Stefano Ceccanti a Mario Adinolfi, candidato alla segreteria con una mozione blogger. Pippo Civati, blogger indefesso e minoritario per scelta di vita, si appoggiava invece alla piattaforma Splinder. E Paolo Gentiloni difendeva in rete i blog dall’obbligo di registrazione previsto dal ddl Levi, trovando una sponda in un’altra nota blogstar: Beppe Grillo.

Sbarcati su Facebook, grazie all’intuizione di Veltroni, i dem ebbero il loro battesimo del fuoco con YouTube grazie a un discorso della giovane Debora Serracchiani, durante la segreteria Franceschini: e il video divenne virale.

L’era bersaniana sui social si aprì con il tentativo dell’allora tesoriere Antonio Misiani di bloccare l’accesso a Facebook per i dipendenti del Nazareno che non dovessero occuparsi di comunicazione. E si chiuse - quasi una legge del contrappasso - con una diretta streaming rimasta nella storia della comunicazione politica: le consultazioni per la formazione del governo, seguite alle elezioni del 2013, il match tra Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta da un lato, i 5 stelle Vito Crimi e Roberta Lombardi dall’altro.

I social per la competizione interna al partito diventano il terreno di scontro quando Renzi inizia la scalata al Nazareno. L’era del renzismo 1.0, quando il nemico era in casa e i renziani si facevano chiamare “Ateniesi”, truppe social guidate dal torinese Davide Ricca, all’attacco degli “Spartani”, i bersaniani capeggiati da Tommaso Giuntella. Ai dem allora piaceva giocare alle guerre stellari: buoni contro cattivi, lato chiaro contro lato oscuro, pacifici contro picchiatori. Ma non era così facile capire chi fosse chi.

Sbarcato Matteo a Palazzo Chigi - a colpi di #staisereno, hashtag entrato nell’italiano parlato - la comunicazione social renziana ha vissuto una seconda fase: era l’epoca del 40 per cento alle elezioni europee e degli 80 euro in busta paga, l’era della narrazione e della Pd Community, creatura nata per opera di Francesco Nicodemo, gli anni delle slide e del racconto di un Paese che si risvegliava dalla crisi, il tempo della resilienza, la stagione delle Leopolde di maggior successo e dei leggendari #Matteorisponde su Twitter, durante i quali scoprivamo che al presidente del Consiglio il tiramisù piaceva coi Pavesini. E, nei pastoni dei retroscenisti sui giornali, la locuzione «Renzi ai suoi», che arrivava dritta dai messaggi WhatsApp inviati ai cronisti da Filippo Sensi, in arte Nomfup, spin doctor renziano.

Negli anni più recenti, dalle europee alla disastrosa campagna referendaria, i dem hanno ingaggiato una lotta senza quartiere contro il nemico grillino su Twitter e Facebook. Una sequela di guru social, compreso quel Jim Messina artefice dei successi obamiani, un uso crescente dei frame comunicativi dell’antipolitica, il ricorso all’astroturfing, cioè alla creazione di sedicenti gruppi spontanei di supporto su Facebook, culminato nella celebre gaffe di Alessio De Giorgi, comunicatore renziano sorpreso a gestire “Matteo Renzi News”, covo di fanatismo leaderistico.

Fino ad arrivare a oggi, la stagione del renzismo 4.0, in cui i dem ondeggiano fra la vocazione a imporsi come nuovi influencer sui social più alla moda - è il caso di Maria Elena Boschi, stellina di Instagram - e il silenzio social del nuovo uomo forte Marco Minniti, che non twitta e non posta nulla on line. Intanto, i contenuti si fanno sempre più indistinguibili da quelli di M5S e del centrodestra. Come dimostra la card, volantino virtuale, diffusa dal Pd per condividere quell’«aiutiamoli a casa loro» proveniente dal libro di Renzi, che ha causato la rivolta degli utenti. E molta confusione.