Suprematismo bianco, paranoia religiosa, feticismo delle armi, negazionismo  sul clima: così la democrazia si fa incubo ideologico 

Non posso crederci» è stata probabilmente la frase più pronunciata, un anno fa, quando Donald Trump, ricco immobiliarista e star di seconda grandezza della televisione pop, espugnò prima il Partito Repubblicano, poi l’America. In quel «non posso crederci» avranno certamente pesato i sondaggi calibrati male, la spocchia dell’establishment dem, la sopravvalutazione della modesta candidatura di Hillary Clinton, la sottovalutazione dell’influenza nefasta dei social, la rabbia degli esclusi “traditi dalla sinistra” e tutti gli errori strategici e tattici di questo mondo. Ma ancora di più, in quella incredulità sgomenta, pesava un pregiudizio “buono”, comune tanto agli europei quanto a quegli europei d’oltreoceano che sono i newyorkesi (New York ha dato a Trump solo il 10 per cento dei suoi voti…).

Il pregiudizio “buono” era questo: che la democrazia non può partorire mostri. Con tutti i suoi difetti, anzi proprio in virtù del suo fondamentale difetto - che è la mediocrità - la democrazia è capace di assorbire gli urti estremisti e i veleni ideologici, stemperandoli nel mare magnum del suffragio universale. La democrazia, in quanto luogo dei grandi numeri, è moderata per definizione, è anti-radicale per forza di cose. Le maggioranze, proprio perché inclusive, proprio perché soffocanti, tendono sempre al basso profilo: il nero si stempera in grigio, in democrazia, e il rosso in rosa… In buona sostanza, la democrazia è democratica, e dunque non può generare, per sua natura, che democrazia.

«Alla fine prevarrà, come sempre, il buon senso» era, negli Usa come in Europa, la convinzione profonda della pubblica opinione “visibile”, quella che legge i giornali e partecipa alla vita pubblica, mano a mano che avanzava sulla scena l’inverosimile figura di The Donald. Inverosimile perfino fisicamente, e forse soprattutto fisicamente, quei capelli assurdi, quell’incarnito paonazzo, quella volgarità di modi, quell’infantilismo di pensiero, quelle case dorate e tigrate che rimandano all’estetica dei boss malavitosi, o dei plutocrati caucasici. Più un personaggio dei Simpson, caricatura iperrealista e buzzurra del plutocrate arrogante, che un protagonista verosimile della cosiddetta Polis - per altro, con il passare degli anni, sempre più cartoonesca.

Tipi così avanzano, con notevole successo, nelle para-democrazie asiatiche, o nei post-regimi dell’Est Europa, democrazie ancora soprattutto formali e poco sostanziali.

Perfino Berlusconi (che, volendo, fu un proto-Trump però disarmato, senza l’atomica e senza la National Rifle Association al suo fianco: al massimo qualche macchietta leghista che mostrava la pistola in televisione) poteva essere visto come il momentaneo abbaglio di un paese immaturo, di bassa scolarizzazione rispetto alla media europea, altamente impolitico per atavica tradizione familista e per l’altrettanto atavica influenza della Chiesa cattolica: e però pur sempre posto, fortunatamente, sotto la sorveglianza dell’Europa politica.

Ma negli Stati Uniti, cuore dell’Occidente, per definizione “la più grande democrazia del mondo”, con basi settecentesche e lunghissimo curriculum, come è possibile che vinca “uno così”, un corpo totalmente estraneo a entrambi i partiti che da due secoli reggono il potere?

Invece ha vinto. E “la più grande democrazia del mondo” ha dimostrato di essere scalabile come una qualunque holding dalla leadership debole; e prima di lei scalabile il Grand Old Party, i repubblicani, la metà del tutto, usati da Trump come fa il cuculo con i nidi altrui, buttando fuori, uno dopo l’altro, i pulcini “legittimi”; e prima ancora scalabile il senso comune dell’America provinciale, la palude della brava gente che tosa il praticello e organizza il barbecue, improvvisamente trasformata in una bomba in grado di ribaltare Washington, i suoi colonnati neoclassici, i suoi palazzi eleganti, le sue consuetudini. Tutta la East Coast è stata scaricata a mare, con l’arrivo di Trump, come da uno tsunami in senso inverso, partito dalla terraferma.

Lo choc, a un anno di distanza, è tutt’altro che assorbito. Anche perché non era affatto uno choc, un colpo duro e però occasionale, superabile. Era un punto di non ritorno, un valico della storia, qualcosa che modificava per sempre, negli Stati Uniti come in Europa, la nostra concezione della democrazia come assicurazione contro le avventure, come antidoto al peggio. Il vecchio consolante «poteva andare peggio», da Trump in poi, non ha più luogo. No, non poteva andare peggio. Niente è peggiore (e più radicalmente antidemocratico) del suprematismo bianco, del sessismo smanacciante, del feticismo delle armi da fuoco, della religiosità bigotta e conformista, della paranoia antislamica (e per esteso allofoba), del creazionismo (che è rifiuto della scienza e dunque della realtà, mica un dettaglio), dell’antiabortismo militante, del negazionismo in materia di cambiamento climatico. Nessuna delle componenti più estremiste e ottuse della destra americana è assente, nel vasto elettorato di Donald Trump. Non solamente sui siti della nuova e ciarliera “Alternative Right”, anche nelle decrepite, lugubri stanze del Ku Klux Klan esultarono, quando Washington cadde finalmente nelle mani del White Power, lavando l’onta del doppio mandato di Obama.

Le ragioni economiche del successo di Trump sono state dette e stradette: molti tra i poveri e gli esclusi, abbandonati al loro destino dalla rinuncia a ogni argine anti-speculativo e anti-trust dalle amministrazioni dem (soprattutto quelle rette dal marito della signora Clinton), si sono buttati tra le braccia del demagogo che prometteva vendetta e redenzione (salvo poi insediare un’amministrazione composta da uomini di Wall Street ed ex generali, con l’eccezione di una ex campionessa di wrestling). Ma l’ossessione economica rischia di generare un vizio interpretativo, una mono-lettura dell’umano. Rischia di mettere in secondo piano le ragioni ideologiche: che pesano, nella generazione del consenso (e del dissenso) almeno altrettanto. L’ideologia, in politica, non è affatto un agente minore, o addirittura inerte. Tra l’Obama che nel 2009 va al Cairo a dire che «l’America non è un impero interessato solo a se stesso», e dunque bisogna impostare i rapporti con l’Islam e con il mondo «sul mutuo interesse e sul mutuo soccorso», e l’America di Trump, non c’è solamente un abisso politico. C’è un abisso identitario, un baratro culturale e ideologico, la classica “diversa concezione del mondo”.

Il grande comico Maz Jobrani, iraniano di California, tipico americano di nuovo conio e formidabile derisore del “trumpismo popolare”, descrive anche con la mimica la geografia degli americani che hanno votato per Trump: «Qui c’è l’America (le mani indicano il centro della scena). Sparpagliato tutto attorno, alla rinfusa, c’è il resto del mondo (le mani tracciano, attorno agli States, un indefinito magma, una poltiglia vaga e irrilevante)». Trump non riconosce il nome di molte delle Nazioni della Terra. Non sa dove sono, non sa che cosa sono, e l’unica cosa che gli interessa è che non disturbino gli interessi americani, l’economia americana, la supremazia americana. Non il nazionalismo, ma un provincialismo patologico erutta da ogni suo tweet. State alla larga. Lasciateci in pace.

Avrà sicuramente votato per lui Dinamite Bla, il farmer appalachiano che, nelle storie di Paperino, accoglie ogni intruso impugnando lo schioppo. E gli sceriffi dai modi bruschi e dalla pistola facile, e l’umanità manesca, impermeabile al dubbio, certa individuo per individuo della bontà delle proprie ragioni (suprematismo egoico?) che produce in quel Paese grande e terribile l’incredibile cifra di trentamila (e oltre) morti ammazzati in sparatorie, ogni anno: ne bastano due, di anni, per superare il numero di caduti nella lunga guerra in Vietnam. E aggiungeteci pure il maggior numero di carcerati al mondo in rapporto alla popolazione, quasi settecento detenuti ogni centomila abitanti. Secondo e terzo posto del podio sono occupati da Cina e Russia.

Per un luogo comune che svanisce - la democraticità della democrazia, la sua resilienza all’estremismo - un altro ahimè si rafforza, con la vittoria di Trump. Il luogo comune antiamericano (enormemente diffuso nel mondo) che nell’egemonia militare e politica degli Stati Uniti legge prepotenza e non spirito di giustizia, repressione e non governance. Luogo comune in parte corrivo, in parte iper-ideologico, che solamente l’iper-ideologia reazionaria di Trump poteva risvegliare. Di fronte al trumpismo, a quelle parole, a quel vecchio maschio gongolante, certo di essere nel giusto e sotto la protezione di Dio, vedo e sento rivivere sentimenti e ostilità che credevo tramontati assieme alla mia prima giovinezza (gli anni Sessanta), e a quell’immaginario remoto: il finale “allocida” di Easy Rider, con la fucilazione “on the road” dei due hippies irregolari da parte di due maturi esponenti della “maggioranza silenziosa”; il Dottor Stranamore a cavalcioni dell’atomica, la polizia sbirra di Fragole e sangue, l’Urlo libertario e antifascista di Allen Ginsberg contro la società americana («Moloch il cui sangue è denaro che scorre!»), la cui pubblicazione costò l’arresto a Lawrence Ferlinghetti (era il 1956, pieno maccartismo), insomma l’intero repertorio di anticorpi “liberal” che solo l’America peggiore è capace di mobilitare.

Ecco: se qualcosa è cambiato, grazie a Trump, è che paura chiama paura. Il sottotitolo italiano di Easy Rider era “Libertà e paura”. Viene da ritoccarlo, purtroppo, in “Paura e paura”: la paura che suscita un potere mondiale fondato sulla paura di tutto ciò che non è “America First”.