Il flusso d’informazioni tra architettura e arte è stato costante nel periodo delle avanguardie storiche, si pensi a Mondrian, al Neoplasticismo e a Rietveld, ma dagli anni Sessanta con l’attitudine liberatoria del radical design e del postmodernismo l’immaginario progettuale, da Robert Venturi a Archigram e Superstudio, ha sviluppato nuove vie espressive, che vanno dal collage pop alla decostruzione della città. Sono manifestazioni di un pensiero autonomo che non vuole dipendere solo da vincoli esterni, dal sociale al simbolico, ma risultare una pratica critica e progressiva del linguaggio architettonico. Per far ciò guarda alla dimensione indipendente dell’artista che si misura con l’ambito disciplinare del suo fare. L’investigazione su uno spazio diverso del costruire porta a volgere lo sguardo verso due protagonisti di proposte urbane: Claes Oldenburg (1929) e Gordon Matta-Clark (1943-1978). Il primo autore, già dal 1965, di progetti di grattacieli, a Manhattan, in forma di gelato o di cracker, di ventilatore o presa elettrica; il secondo interessato dal 1971 a sezionare e tagliare edifici, come ready made urbani, da cui estrarre porzioni a forma di cono o esaltare le stratificazioni così da mostrarne le masse e i vuoti.
Di fatto arrivare a considerare un complesso architettonico come un oggetto da incidere e spelare, bucare e trapassare, come in Frank O. Gehry, producendo tensioni diverse di attraversamento e di distribuzione dei pieni e dei vuoti.
Una pratica a rimuovere (al Culturgest, Lisbona, fino al 7 gennaio e al The Bronx Museum of the Arts, New York, fino all’8 aprile), definita “anarchitettura” (an sta per anarchia), in cui l’esterno e l’interno, dal tetto alle fondamenta, sono assunti come blocco da incidere e segmentare: un togliere classico della scultura per una lettura dell’architettura.