Le guerre. I nazionalismi. Le religioni. Intervista a tutto campo con il pianista e direttore d'orchestra alla vigilia del suo settantacinquesimo compleanno

espressodondi-20171108180918805-jpg
Per capire l’arte di Daniel Barenboim bisogna assistere a un suo concerto pianistico. A esempio impegnato nell’interpretazione dell’“Arietta” dall’opera 111 di Beethoven: sotto il suo vigile sguardo le prime variazioni fluiscono piane e ligie. Ma da un momento in poi paiono spiccare il volo e aleggiare in un mondo dove i corpi non pesano più, le leggi della fisica si rivelano superflue. Anche i movimenti sulla tastiera sembrano prendere il largo, salpare per i luoghi del non detto, delle sensazioni inespresse. L’ispirata tensione in cui è coinvolto, come ipnotizzato, il pubblico, si scioglie infine in liquidi trilli, dai quali sgorga nel registro sovracuto il tema portante enunciato all’inizio. Allora, prima del consueto applauso, a conclusione di questa sorta di preghiera laica che evoca lo spirito dell’autore, lo sguardo del pianista con sapiente gesto retorico si rivolge agli spettatori come per abbracciarli, creando una sorta di teologica, intima, unione. Il 15 novembre Barenboim compirà settantacinque anni, anniversario per il quale sono previste pubblicazioni di libri e dischi come la raccolta “The solo recordings” della Dgg e concerti che culmineranno, il giorno del suo compleanno, nella serata alla Philharmonie di Berlino che lo vedrà protagonista assieme a Zubin Mehta e alla “sua” Staatskapelle in brani di Strauss, Beethoven e in una prima mondiale, “Stretta” per pianoforte e orchestra, che Johannes Boris Borowski ha composto in suo onore.

Questo preambolo per dire che per Barenboim la musica è tutt’uno con la vita. Quando si parla con il maestro argentino, come L’Espresso in esclusiva, si ha la sensazione che ogni parola, concetto o fatto, converga per irresistibile attrazione verso l’evento sonoro. Giovanni scrisse “In principio era il Verbo”, Goethe “In principio era l’azione”. Per Barenboim dunque “In principio era il suono”. «Aristotele disse che gli occhi sono gli organi della tentazione, le orecchie quelli dell’istruzione», ci spiega divertito Barenboim. «Tutte le definizioni possibili ci ricordano come la musica richiami altri significati oltre quelli che le competono solitamente. Prenda a esempio il contrappunto. Non è soltanto un termine musicale. È una cosa essenziale nella vita. C’è sempre qualche cosa da dire, da commentare: se la musica la si sa “pensare” e non soltanto suonare, si capiscono tante cose sull’esistenza umana, che nell’arte delle sette note sono assolutamente chiare. Allo stesso tempo la musica offre a chi vuole la possibilità di evadere dal mondo reale e di crearne uno parallelo. Insomma, la musica è nel mondo, però ci dà anche la possibilità di fuggirne».

Il contrappunto, per Barenboim, è l’abilità di ascoltare diverse voci insieme cogliendo l’esposizione di ciascuna di esse separatamente, la capacità di ricordare un tema comparso che ha subìto un lungo processo di trasformazione, la competenza nel riconoscere le variazioni geometriche del soggetto di una fuga. «Tutte qualità che accrescono la comprensione fra gli esseri umani, che così sarebbero più pronti a cogliere non le differenze fra loro, ma le somiglianze fra tutti».

Contrappunto, dunque, come metafora del dialogo. Così, Barenboim si è sempre augurato “maggior contrappunto” fra israeliani e palestinesi. «Da troppo tempo i due contendenti e il resto del mondo affermano di aver interesse a risolvere il conflitto. Ma come mai in tanti anni, l’anno prossimo saranno già settanta, non si è trovata una soluzione? Secondo me è perché non si vede questo conflitto come è in verità. Perché non è una disputa fra due nazioni, come ne abbiamo viste centinaia nella storia, causate dai confini, dall’acqua o dal petrolio. Questo è un conflitto fra due popoli, che sono profondamente convinti di avere il diritto esclusivo di vivere sullo stesso piccolo pezzo di terra, e preferibilmente senza l’altro».

Pare una situazione senza vie d’uscita. «Non si può fare un compromesso fra due persone, due popoli o due nazioni che non si riconoscono. Per questo io dico da quarant’anni che la soluzione si deve trovare fra due Stati. Dunque bisogna prima di tutto riconoscere la Palestina come tale. Per questo c’è bisogno che l’Italia, la Francia, la Germania, tutti cooperino per affermare questa realtà e soltanto dopo si potrà parlare di una soluzione».

Dinanzi a questi problemi, come si sono comportati gli ultimi due papi, Benedetto XVI e Francesco? «Sono personaggi assai diversi. Ricordo che Benedetto aveva un interesse quasi professionale per la musica. Quando è venuto alla Scala in occasione della mia direzione della Nona sinfonia di Beethoven, dal palcoscenico ha fatto un discorso sul compositore che è uno dei più profondi, rimarchevoli che abbia mai ascoltato. Ma a Papa Francesco, modestamente, mi sento particolarmente vicino. Forse perché è argentino e perché è un essere umano che ispira la tolleranza. Credo che abbia una preoccupazione molto onesta per il benessere di tutti i popoli delle tre religioni monoteiste. Ovviamente ispira fiducia ai cristiani ma, come ho avuto modo di verificare in giro per il mondo, anche agli ebrei e ai musulmani».

Dalla musica si può dunque apprendere una gran quantità di principi utili per la vita, persino quelli etici. Ma nelle nostre scuole e nei conservatori l’istruzione è altamente specializzata e spesso scollegata dal suo contenuto effettivo. Il Sistema Abreu ha provato a rivoluzionare i metodi di studio, a portare la sua conoscenza fra il popolo. Ma, a considerare quello che succede nel Venezuela di Maduro, sembrerebbe aver fallito. Barenboim non la pensa così: «Il Sistema non ha niente a che fare né con Maduro né con Chávez. Il Sistema è qualcosa che è precedente, non è un progetto politico. Successivamente è stato strumentalizzato e appoggiato - e perché no? - dai governi di Chávez e Maduro. Ma l’idea di Abreu è qualcosa di molto importante, perché dimostra che la musica può avere un’influenza molto positiva sulla vita di un essere umano. E dimostra che è un grande peccato che non ci sia un’educazione musicale nelle scuole di tutto il mondo. La musica non è soltanto un piacere passeggero: la sua profondità può rendere più ricca la vita di un essere umano».

Ancora una volta il fattore umano va di passo con quello musicale. Per questo il Maestro ha affinato una formidabile sensibilità nell’educare i giovani, assieme alle capacità di talent scout. Grazie a lui, come ha ricordato Cecilia Bartoli all’Espresso, la cantante ha scoperto le proprie affinità mozartiane. Grazie a lui la carriera di Lang Lang ha spiccato il volo. E Antonio Pappano, che arrivò umilmente a Berlino per accompagnare una cantante in un’audizione, poté iniziare la carriera di direttore come suo assistente a Bayreuth. Ha insomma l’orecchio per capire dove sia il talento. «Qualche volta, forse, non ho sbagliato», commenta ironicamente. Una disponibilità e generosità verso il prossimo insolite fra i suoi colleghi. Eredità della cultura cattolica? «No, è piuttosto d’origine ebraica. Tanto per chiarire un po’, magari semplificando: la religione cristiana è basata soprattutto sull’amore, la religione ebraica piuttosto sulla giustizia. L’ebreo dice: io non ti posso obbligare ad amare il prossimo, ma ti posso obbligare ad essere giusto con lui. E per questa ricerca di giustizia dobbiamo utilizzare soprattutto l’intelligenza. Questo anche al fine di dare la possibilità di progredire alle persone di qualità. Le faccio un altro esempio: spesso i direttori musicali hanno timore a invitare i colleghi di grande talento, forse per non fare cattiva figura. Sbagliano, perché quando hai degli ospiti che sono bravi, anzi ancora più bravi di te, tu ne esci fuori molto meglio. Questo per me è stato un principio che ho praticato sia a Parigi che a Chicago e a Berlino, e che ho concertato con Lissner quando ero alla Scala».

Già, la Scala, dove è stato direttore musicale dal 2011. Come è stato il suo rapporto con Milano? «Sono stato molto felice, mi manca molto. Mi sentivo a casa mia, come se fossi stato in Argentina. Ho avuto una relazione molto intima con il coro e soprattutto l’orchestra, dotata della virtù della curiosità intellettuale. Consideri che ho fatto alla Scala sei delle dieci opere di Wagner, fatto eccezionale per una programmazione in Italia». Ma fu infastidito da alcune recensioni? «I critici che scrivono in forma negativa su un artista sono sempre sorpresi che questi possa avere successo nonostante i loro cattivi giudizi. Dunque bisogna avere un po’ di misericordia per loro».

Col tempo lei ha modificato i programmi dei suoi concerti. «Le coordinate fisse, che m’hanno accompagnato per tutta la vita, sono sempre state le sonate di Beethoven e i concerti di Mozart. Adesso, nelle esibizioni solistiche, più Liszt e Chopin che prima. In una vita così lunga come la mia è normale che si cambino un po’ di preferenze». Ma lo fa per venire incontro agli interessi del pubblico? «No, per il mio progresso musicale. Certe cose le suono e le dirigo soprattutto perché non sono conosciute sufficientemente, come certi pezzi di musica contemporanea, di Boulez, Aribert Reimann o Luca Francesconi».

Ho visto in un suo programma di gennaio i Preludi di Debussy. «Erano quasi vent’anni che non li suonavo. Debussy è al centro dei miei interessi, un tema che mi prenderà parecchio quest’anno e il prossimo, in cui ricorrono i cento anni dalla morte. Un compositore che non è veramente accettato o capito per tutta la sua grandezza. C’è ancora troppa gente che pensa che è soltanto un pittore impressionista che gioca con i colori. Qui a Berlino con la mia Staatskapelle suoneremo praticamente tutto il repertorio sinfonico e naturalmente l’opera “Pelléas et Mélisande”. Un impegno molto importante, perché un’orchestra di grande livello deve avere la capacità di dominare diversi stili e cambiare le sonorità come una persona che parla parecchie lingue, senza accenti impropri. Io non voglio sentire Debussy alla tedesca, non mi interessa».

Le grandi orchestre di cui lei è stato direttore musicale a Londra, Chicago, Parigi, Berlino, Vienna, Milano. «Quando io penso a tutti questi musicisti che ho incontrato, ho l’impressione di aver vissuto per cinque o dieci persone. Mi considero molto fortunato ad aver incominciato molto giovane. Così ho potuto frequentare i grandi direttori molto presto. Mi trattavano con una gentilezza che si ha con un bambino». Nel 1954, fanciullo prodigio al piano, suonò anche per Wilhelm Furtwängler, che lo invitò per un concerto con i suoi Berliner Philharmoniker. Un modello per la sua carriera sul podio: il filosofo guidava le prove, il poeta dirigeva la sera. «Ha costituito un forte punto di riferimento per noi tutti, giovani studenti di un tempo, da Claudio Abbado a Zubin Mehta, al sottoscritto. Per me è il simbolo di tutto il bene che si può raggiungere come interprete musicale. Ha saputo rendere emozionante l’architettura e razionalizzare, strutturare, il sentimento. L’equilibrio totale fra strategia, calcolo e istinto».

Come Sergiu Celibidache, che ha trasformato in ideologia le idee di Furtwängler sul suono. «Ogni anno facevo un concerto con lui a Monaco. Mi chiese: “Con tutto quello che fai a Chicago e a Berlino, come fai a trovare il tempo di venire qui?”. Gli risposi una cosa che lo emozionò, ma che era la pura verità: “Maestro, io non sono mai partito da Monaco senza aver appreso qualcosa di nuovo”. Celibidache era un grandissimo musicista da cui si poteva imparare parecchio. Però si doveva prendere cura di non imitarlo, perché era una personalità molto forte. E l’imitazione è una maniera falsa di rispetto». E Otto Klemperer. «Un giorno arrivai a una seduta per registrare con lui i concerti di Beethoven e Klemperer, solitamente puntualissimo, giunse con un quarto d’ora di ritardo. Si scusò profondamente con l’orchestra: “Mi dispiace, ma ero in albergo e c’era in tv Stokowski che dirigeva la Quinta sinfonia di Beethoven”». Sorprendente, due direttori così diversi: il primo alfiere integerrimo della rigorosa fedeltà al testo, il secondo che amava reinterpretarlo con molta libertà. «Stokowski era un mago del suono, sapeva far suonare l’orchestra come se l’avesse avuta nelle proprie mani. Aveva un grande senso dei colori. Le sue trascrizioni strumentali sono molto interessanti, non parlo soltanto della famosa “Toccata e fuga” in re minore di Bach. L’altro giorno ho sentito la sua versione del “Clair de lune” di Debussy: magnifica, Debussy stesso non avrebbe fatto di meglio. Celibidache, che di solito era molto duro nei confronti dei colleghi, parlava benissimo solo di Furtwängler e, appunto, di Stokowski».

E poi gli incontri con i grandi pianisti, con alcuni dei quali ha studiato. Claudio Arrau, a esempio «Negli anni Trenta e Quaranta era dotato di capacità tecniche incredibili. Però era anche un grande musicista. La sua importanza, storicamente parlando, consiste nel fatto che ha dato contenuto anche al repertorio virtuosistico - pensi a esempio al suo Liszt - dimostrando che la musicalità non necessita di una mancanza di tecnica per essere espressiva». Ed Edwin Fischer. «Aveva una luminosità di suono che non ho mai avvertito in altri pianisti. E questo anche quando suonava in pianissimo. E una capacità fuori dal comune di esprimere il contenuto della musica con estrema semplicità. Non si avvertiva mai lo sforzo, il calcolo». Arthur Rubinstein. «Il re del pianoforte. Ha conosciuto i miei genitori quando mia madre mi portava nel pancione. E ho avuto il grande privilegio di stargli vicino fino alla morte. Da lui ho imparato che per coinvolgere emotivamente il pubblico, un grande interprete deve dare l’impressione che sia facile suonare come fa lui, che ognuno potrebbe fare altrettanto». In questi mesi Barenboim è stato visto e ascoltato molte volte in palcoscenico con Martha Argerich. «La conosco dal 1949: negli ultimi anni siamo riusciti a suonare più spesso insieme. Una gioia davvero speciale, soprattutto a livello musicale e umano. Non soltanto perché siamo entrambi argentini o abbiamo all’incirca la stessa età, ma per una certa visione della vita, ironica e disincantata».

Ha detto che ha avuto un’esistenza intensa, da poterne ricavare cinque. Rimpianti? «Non ci penso mai. Sono cosciente del fatto che devo molto ai miei genitori, che mi hanno dotato di una salute molto forte. E che mi hanno pure educato nel modo migliore, quello che ha guidato la mia vita. Grazie a loro ho potuto coltivare un intelletto curioso, insieme al desiderio di progredire: cose che mi hanno trasmesso una grande energia, fondamentale nell’affrontare le avversità. Come diceva il grande Arthur Rubinstein: l’unica forma per essere felice in questo mondo è di non mettere delle condizioni, non dire mai “Ah se avessi più soldi...”, oppure “Se avessi più salute...” . La parola “se” è stata completamente cancellata dal mio vocabolario. Bisogna vivere la vita senza condizioni. Così, puoi essere autenticamente felice».