La nostra è un’era iperconnessa. Ma non senza precedenti come vorrebbero i guru di Silicon Valley. Insomma, dice il grande storico, «La rete è un déjà vu»

Niall Ferguson
La torre e la piazza. Il simbolo dell'ordine gerarchico e quello del caos connesso.  La storia, prodotto dei vincitori, ha da sempre guardato più dall'alto della prima, che dal basso della seconda. Ma ha sempre sbagliato, scrive Niall Ferguson nel suo ultimo volume di prossima uscita in Italia per Mondadori, “The Square and the Tower” (Allen Lane, pp. 573). Una volta reinterpretato il passato alla luce della teoria delle reti, il compito immane e affascinante che si propone lo storico di Harvard nel volume, si comprende che la nostra è un’era iperconnessa, sì, ma non senza precedenti come vorrebbero i guru di Silicon Valley. Comprensibile. Perché, per loro, le lezioni da trarre sono scomode. Per esempio, che l’utopia di Mark Zuckerberg - un mondo tutto «aperto e connesso», in un’unica comunità globale - è semplicemente falsa, e irrealizzabile.

Ferguson, lei scrive che «l’uomo è nato per fare rete». E tuttavia, «per buona parte della storia così com’è registrata, le gerarchie hanno dominato le reti», al punto di convincerci che l’attuale civiltà connessa sia un fenomeno inedito. Lei invece sostiene che la nostra sia in realtà una «Seconda Era Connessa». Come abbiamo potuto dimenticare la prima?
«Da un lato gli storici non sono pratici di scienza delle reti, e dall’altro gli scienziati delle reti non comprendono la storia. A parlare con chi vive in Silicon Valley sembrerebbe che la storia sia cominciata quando Google è entrata in Borsa, e tutto quanto è venuto prima sia l’Età della Pietra! In realtà ci sono state precedenti ere connesse. Una è quella dovuta all’impatto della carta stampata nell’Europa del XVI e XVII secolo. Non credo che avremmo avuto la Riforma, senza l’invenzione della stampa. La letteratura scientifica mostra che sulla sfera pubblica ha avuto lo stesso effetto del pc e di Internet nel nostro tempo, riducendo fortemente il costo di fare rete, e creando modi inediti per diffondere le idee. Insomma, credo che si possano ricavare delle importanti lezioni dalle esperienze di quei secoli. Ma sono lezioni spiacevoli, la storia che sto raccontando non consente ottimismo».

Cosa possiamo imparare dal passato?
«Per prima cosa, di non aspettarsi che un mondo connesso sia una armoniosa comunità globale in cui tutti condividono felicemente video di gattini. La lezione dei secoli XVI e XVII è che se si creano piattaforme per fare rete, e si conferisce alle persone il potere di condividere le proprie idee, queste si polarizzeranno rapidamente in raggruppamenti uno opposto all’altro. È il fenomeno noto come “omofilia”, in cui “chi si somiglia si piglia”. Tendiamo a orbitare intorno a persone come noi, e intorno a idee con cui siamo d’accordo, e questo è un aspetto davvero importante».

Altri?
«Che, in una rete, idee folli possono diventare “virali” tanto quanto quelle sensate, o perfino di più - perché estremamente seducenti. Nel XVI e XVII secolo molti erano ossessionati dall’idea che tra loro si celassero delle streghe, e l’isteria portò a bruciare migliaia di persone che erano in realtà completamente innocenti. Allo stesso modo oggi discutiamo incessantemente di “fake news”, che non sono altro che la caccia alle streghe della nostra era».

Poi c’è l’illusione di essere tutti uguali, in rete.
«Sì, un mondo connesso non è necessariamente un mondo in cui siamo tutti uguali cittadini della rete che scambiano idee liberamente. In realtà, le reti hanno strutture profondamente ineguali, per via dell’“attaccamento preferenziale”: vogliamo connetterci, sì, ma a persone ben connesse. È il motivo per cui quando ci iscriviamo su Twitter seguiamo Donald Trump piuttosto che un utente qualunque».

E cosa invece appartiene unicamente alla nostra attuale era connessa?
«Le dimensioni, sicuramente, sono senza precedenti: su Facebook ci sono due miliardi di persone, più della popolazione della Cina. E la velocità. La nostra era connessa viaggia un ordine di grandezza più rapidamente rispetto al XVII secolo. Ciò allora che richiedeva un secolo, ora accade in dieci anni. Questa combinazione di dimensioni e velocità fa sì che gli effetti di rete siano più violenti anche rispetto a quelli di cinquecento anni fa».

Ma queste società del passato come hanno combattuto la diffusione di notizie false?
«È una domanda a cui è molto difficile rispondere. Nel suo splendido “Religion and the Decline of Magic”, Keith Thomas ha mostrato che, gradualmente, nel corso del XVII secolo le idee sulla magia sono state rimpiazzate da idee sulla scienza, così che nel secolo successivo non erano più in molti a credere nella magia e nelle streghe. È una storia incoraggiante, ma con un lato meno gradevole: ci vuole molto tempo, e inoltre gli argomenti razionali avanzati per esempio dai philosophes nella Francia del XVIII secolo hanno finito per portare alla Rivoluzione Francese e a Robespierre. Ciò che stiamo testimoniando - e di nuovo, più velocemente - è che le piattaforme di rete hanno creato una sfera pubblica in cui le idee competono in un senso quasi darwiniano. Il problema, ed è un punto cruciale, è che le piattaforme di rete diffuse al tempo della carta stampata non erano principalmente motivate dal desiderio di vendere pubblicità».

Per le attuali, invece, è il cuore del modello di business.
«Allora la vendita di pubblicità era importante solo per una parte relativamente piccola di ciò che veniva pubblicato - perlopiù giornali e riviste. La maggior parte delle persone che pubblicavano libri e pamphlet non ricavavano denaro dalla pubblicità; Martin Lutero non stava vendendo spazi pubblicitari quando ha pubblicato le sue 95 Tesi. La nostra sfera pubblica invece è quasi interamente dominata da piattaforme di rete, come Facebook e Google, che sono principalmente motivate dalla vendita di pubblicità, e ne ricavano enormi profitti. Le loro ragioni, insomma, sono molto diverse da quelle degli editori del XVII e XVIII secolo, che cercavano solamente di vendere idee. È una differenza cruciale: a Facebook non interessa se un’idea è vera, ma solamente che abbia abbastanza presa da aumentare l’engagement dell’utente. È un aspetto davvero pericoloso della nostra era».

Significa che dovremmo cercare di costruire uno spazio pubblico per connetterci, sì, ma al riparo dalla logica pubblicitaria?
«Credo che le cose debbano cambiare. Se continuiamo ad avere una sfera pubblica dominata da entità private che vendono i nostri dati - dopo che noi glieli abbiamo dati gratis - ad agenzie pubblicitarie, gli effetti saranno letali per la democrazia. Letali. Oggi i giganti di Silicon Valley non sono responsabili dei contenuti che appaiono sulle loro piattaforme, tranne poche eccezioni. Non ce lo possiamo più permettere. Questi sono ormai i più grossi editori di contenuti nel pianeta, e Facebook ha una massa enorme di dati sui suoi utenti, dati che non possono rimanere in mani private per lo scopo esclusivo di fare soldi. Le regole devono cambiare completamente, e non sta accadendo. È un momento critico».

Eppure anche fare di Facebook un editore tradizionale non convince. Nemmeno lei. Nel suo libro menziona la legge tedesca contro le “fake news”, che in realtà - come nella brutta copia partorita in Italia dal Pd - riguarda contenuti illeciti, e scrive: «Sostenere che Google e Facebook debbano diventare i censori non è solo abdicare alla propria responsabilità; è prova di una strana ingenuità». Come dire: si vuole ridurne il potere, e lo si cerca di fare dandone loro di più, come quello di «limitare la libera espressione»?
«Sono fortemente contrario alla censura, e se diciamo a Facebook “censura al posto nostro, è compito tuo, oppure ti multiamo”, non c’è garanzia che non si faccia prendere la mano. La chiave non è dunque la censura, ma la responsabilità legale. Se per esempio Facebook o Google rendono disponibili contenuti che conducono a illeciti di natura sessuale ora negli Stati Uniti c’è una legge che specifica che sono responsabili delle conseguenze e dei danni che ne provengono. È questo il tipo di responsabilità che dobbiamo stabilire; quella tedesca invece è la via perfetta per distruggere la libertà di espressione, e credo che la politica europea sia straordinariamente avventata nel volerla percorrere».

Un’altra strada per uscire dal vicolo cieco di Silicon Valley, scrive nel libro, è competere, invece che arrendervisi, cercando al più di regolamentarne gli eccessi. È la strada percorsa dalla Cina, che ha le proprie piattaforme digitali, con le proprie - inaccettabili - norme. Troppo tardi per l’Europa per cercare di creare un proprio social network o motore di ricerca?
«Quel treno è partito, quella possibilità non c’è più. Gli europei hanno avuto la loro occasione, e l’hanno sprecata. L’idea di costruire una Internet europea parallela non è percorribile, ma è ancora possibile migliorare il quadro regolatorio così da non fare dell’Europa una colonia di Silicon Valley. La Cina è stata strategicamente accorta, ma l’obiettivo è sempre stato il controllo della cittadinanza, e di certo non vogliamo che accada altrettanto in Europa. Il punto cruciale è che i dati controllati dai colossi web, quelli che noi abbiamo dato loro, hanno tra i propri attributi l’essere un bene pubblico, e non credo sia giustificabile che Facebook li monopolizzi quando quegli stessi dati possono essere usati per migliorare le politiche pubbliche, e in generale per fare l’interesse collettivo. E ancora: i governi negli Stati Uniti e in Europa potrebbero chiedere a Facebook e Google di rendere i loro dati disponibili ai governi stessi, ma anche ai concorrenti, perché i dati sono un bene pubblico di cui quelle aziende non possono appropriarsi in modo esclusivo. Una mossa che muterebbe radicalmente l’economia di Silicon Valley, e spezzerebbe i monopoli che vivono di rendita su quei dati».

È una soluzione radicale.
«Ma è quello di cui c’è bisogno. Io stesso mi sto radicalizzando sempre più, perché mi sto rendendo conto delle conseguenze dell’inazione. Lo status quo è totalmente indifendibile, anche se è straordinariamente profittevole per Mark Zuckerberg e i suoi colleghi. Per tutti gli altri e per la democrazia, invece, è estremamente pericoloso».

Nel libro ipotizza che se davvero robotica e automazione dovessero produrre disoccupazione di massa il rischio è «una ripetizione delle rivolte violente che hanno gettato l’ultima grande Era Connessa nel caos della Rivoluzione Francese». È ciò che stiamo cominciando a vedere con quella che Hillary Clinton chiama “Cyber Guerra Fredda”?
«In termini di cyber warfare siamo già in guerra, una guerra quotidiana e permanente perché non c’è deterrenza. Ciò comporta che non possiamo considerare gli strumenti della guerra digitale alla stregua di armamenti nucleari. Senza deterrente, resta la rinuncia all’uso che mettiamo in atto per le armi chimiche e biologiche. Perciò, a meno di una convenzione che includa la Russia e la convinca a rinunciare a strumenti di cyber warfare, l’interferenza continua non solo nelle elezioni, ma potenzialmente in qualunque aspetto della vita, sarà una fonte di grande instabilità. La Russia deve riconoscere che nessuno Stato ha interesse a una cyber warfare illimitata e inarrestabile. È uno dei messaggi fondamentali del mio libro: c’è bisogno di un ordine internazionale, non di un’anarchia connessa».

Un’ultima curiosità: cosa pensa, da storico, del concetto di “post-verità”?
«L’idea che vivessimo in una qualche meravigliosa era della verità, e che sia improvvisamente terminata per colpa di Internet, è profondamente antistorica. I giornali del XIX secolo negli Stati Uniti e in Europa erano pieni di “fake news”, e chiunque abbia studiato sa che il livello di “fake news” durante la Prima e la Seconda guerra mondiale era ben superiore di quello attuale. Per cui no, non c’è mai stata un’era della verità, la verità è sempre stata sotto attacco dalla menzogna, dalle “fake news”, dalla propaganda. La chiave per far vincere la verità sta nella struttura della sfera pubblica. Oggi quella struttura è sbilanciata in favore del falso e contro il vero, ed è questo che deve cambiare».