Quello che ci serve è un nuovo patto di fratellanza e sorellanza tra noi. Solo così potremo costruire un Paese con nuove visioni e nuovi orizzonti. Per evitare le guerre e affrontare i pericoli di un pianeta sempre più precario
La prima volta che ho sentito pronunciare il termine “matria” ero ad una conferenza affollata al Palazzo delle Esposizioni a Roma. Erano i primi anni Duemila e lo scrittore somalo di lingua inglese Nuruddin Farah (uno degli scrittori indicati ogni anno nella lista dei “papabili” al premio Nobel) ci spiegava che la nazione somala disgregata già allora da una guerra civile feroce ed insaziabile scoppiata nel 1991 era di fatto una matria e non più (o forse non lo era mai stata) una patria. La Somalia era all’epoca considerata dal mondo lo stato fallito per eccellenza e tutti le avevano di fatto voltato le spalle. Ma erano state le donne somale le prime a non arrendersi. Con coraggio hanno rialzato la testa dagli stupri subiti e dalla fame per ricostruire quel poco che rimaneva di una nazione resa cenere. È stato grazie alle donne che mandavano rimesse dall’estero e che in qualche modo tenevano le file di rapporti famigliari disgregati (soprattutto dalle migrazioni forzate) che il nome “Somalia” ha continuato a significare qualcosa. È così il paese ha vissuto per anni, come direbbe Vasco Rossi, in equilibrio sopra la follia, e più andava avanti la guerra più la Somalia diventava per tutti noi una Hooyo, una madre, una matria da non dimenticare.
Nel 2005, riallacciandomi ad una tradizione postcoloniale che vedeva la nazione come matria, ho coniato in un vecchio racconto dal titolo “Dismatria” (Pecore Nere, Laterza) il termine “dismatriati” che contrapponevo al termine espatriati, perché quello che sentivamo noi somali della diaspora (oggi purtroppo anche i siriani e gli yemeniti) era il dolore della perdita, cordone ombelicale strappato con violenza da una terra che sentivamo nostra. Non a caso nel bellissimo romanzo di Wu Ming 2 e Antar Marincola, “Timira”, la protagonista Isabella Marincola ormai ottuagenaria dirà: «La mia patria era l’Italia, mentre la Somalia era la mia matria». Isabella, attrice italo-somala, donna dalle mille vite, sorella di un partigiano nero italiano ucciso nel ’45, non viene accettata da nessuno. In Somalia è la “gaal”, l’infedele e in Italia la “negra”, la “faccetta nera” da deridere o conquistare. L’unica possibilità nel libro (e nella vita reale) era quella - ha spiegato la ricercatrice Sonia Sabelli in un suo saggio - di trovare una soluzione duplice «che le permetta di sfuggire alla logica nazionalista, identitaria e razzializzante». Il termine patria, infatti, esclude. Prima di tutto esclude le donne che vengono accettate solo come simboli passivi. Le rappresentazioni della nazione (pensiamo alla Marianne francese) sono di donne idealizzate e portatrici di valori (e figli) puri. Donne non libere, messe sul piedistallo, ma prive di mobilità e che devono, bardate dai colori nazionali, non macchiare l’onore degli uomini.
La patria inoltre esclude l’altro che un tempo era il colonizzato e oggi è il migrante. L’altro se donna diventa anche metafora, durante il colonialismo storico, di terra da penetrare-conquistare. Pensiamo solo al quadro di Christiaen van Couwenbergh del 1632 dove tre uomini bianchi violentano una donna nera. Per loro è tutto un gioco, l’altra non ha nemmeno un viso riconoscibile, sembra un mostro: è, come diceva Mitrano Sani, scrittore del periodo fascista, parlando di una donna colonizzata: «Ella è una cosa (...) che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale». La penetrazione coloniale europea ha significato abusi sui corpi delle donne del sud e abusi sulle terre conquistate.
Anche oggi continua l’abuso. Il corpo altro, il migrante, è escluso dai diritti della patria, dai diritti di cittadinanza o da uno status legale di soggiorno. Ecco perché urge trovare un nuovo equilibrio. Il cantante brasiliano Caetano Veloso, non a caso, in un suo brano intitolato “Lingua” dice: “Io non ho patria, ho una matria e voglio una fratria”.
Forse quello che ci serve è un nuovo patto di fratellanza e sorellanza tra noi, una fratria. Solo così potremo costruire una nazione del futuro con nuove visioni e nuovi orizzonti. Per evitare le guerre e affrontare i pericoli di un pianeta sempre più precario.