Il grande scrittore statunitense  si confessa a Gianni Cuperlo. Parla di violenza e razzismo, democrazia e giustizia. E dei suoi romanzi: «Dietro il racconto, mi sforzo di fare le domande giuste. E di bucare, come palloncini d’acqua, la nostra chiusura mentale»

Direi che servono due premesse. La prima scontata. Chi scrive non è un giornalista e nulla, se non la cortesia del Direttore di questo giornale, legittima il seguito. La seconda è personale. Quattordici romanzi con dedica dello scrittore qui accanto fanno mostra sullo scaffale di casa, segno inequivoco di una passione antica. Tutto il resto è Joe R. Lansdale, 66 anni, texano, autore di romanzi, sceneggiature, fumetti, racconti horror e parecchio altro. Chi lo conosce ne consuma le pagine come si fa con le ciliegie. Se non lo avete mai incrociato il consiglio (che vi darebbe lui) è cominciare da “In fondo alla palude” e “Acqua Buia”. Non lo lascerete più. Ora Einaudi Stile Libero manda in libreria l’ultima avventura del duo di investigatori meno corretti e probabili del genere. È stato lo spunto per una conversazione a ruota libera. Bene, è tutto.

La nuova avventura di Hap e Leonard in uscita in Italia (“Bastardi in salsa rossa”) tocca corde che vengono da lontano. C’è il capitolo razziale, le “case popolari” che sembrano uno slum, la corruzione di un pezzo della polizia che se la piglia coi poveracci ma se sono “negri” sembra farlo più volentieri. A parte la presenza di qualche telefonino che affiora qua e là, pensa che la stessa identica storia avrebbe potuta scriverla trenta o quarant’anni fa? Insomma, l’America è rimasta la stessa oppure era cambiata in meglio ma oggi sta tornando indietro?
Satira preventiva
Fuori gli americani dall’America
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«La risposta è semplice. Sì, le cose vanno meglio, però ci sono atteggiamenti che non sono cambiati. Tante persone di colore si sentono indifese e loro malgrado questo le obbliga a incorporare uno stereotipo che parecchi bianchi vedono come rappresentativo. Io la penso sempre allo stesso modo. Se un nero o un ispanico commettono un crimine e tu pensi che sono quelle persone là che fanno cose di quel tipo, mentre se un crimine lo commette un bianco pensi semplicemente che la colpa sia di quel tipo e non della razza caucasica in genere, allora non hai imparato niente di niente. Il pregiudizio è un atteggiamento “a taglia unica”. Ora, la differenza più grande, ciò che ha bloccato il vero progresso, è la banalizzazione dell’America. La maggior parte degli americani non è d’accordo con quelli che odiano o usano religione e politica come una clava; ma in qualche modo, la minoranza fatta di gente impaurita, arrabbiata e piena di risentimento ha la meglio. Non sono tutti stupidi. Spesso sono istruiti ma scelgono di credere nelle cattive idee senza esaminarle, basta che corrispondano alle loro illusioni».

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Per cui se arriva uno potente che gli promette di costruire un muro contro i “cattivi” finisce che gli credono?
«Possono finire col pensare che “se solo avessimo un muro per tenere fuori i messicani sarebbe un mondo migliore”. O “se solo la gente di colore la smettesse di lamentarsi della propria sorte, andrebbe tutto benissimo”. Per finire con “tutti gli immigrati sono terroristi”. Hanno scelto di pensare ma senza una logica e questo esaudisce le loro attese peggiori. Magari sino a un certo livello gli va bene così. Vogliono sentirsi importanti e si convincono che le loro pistole e il loro dio vendicativo sono le uniche armi per salvare il mondo dal baratro di omosessuali, immigrati, femministe e animalisti. È strano ma è così. Hanno scelto una realtà ed è la sola che vogliono vivere, rafforzati da Fox News e opinionisti millantatori».

Fox News alimenta i sentimenti della destra, ma uno può anche informarsi altrove. Vede una colpa così grave nel mondo dei media?
«Il notiziario 24 ore al giorno è la cosa peggiore che sia successa al nostro paese e tanti dei problemi nostri e del mondo derivano da reti costrette a riempire ventiquattro ore con “notizie”. Il risultato è che assumono un sacco di millantatori sulle due sponde. Pure Cnn e Msnbc, che sono canali più moderati e liberali, hanno molto di cui rispondere. Insieme a Fox News, hanno contribuito alla piattaforma di Donald Trump che di suo è superficiale e privo di comunicativa, uno che non sa niente. Aveva il diritto di essere notato ma non quello a una campagna gratis dedicata a lui giorno e notte».

Dalle nostre parti si pensa che abbia vinto anche per altre ragioni.
«Il punto è che nessuno pensava potesse vincere, così hanno giocato le sue “doti” da intrattenitore. Poi ha vinto, ma solo con 70 mila voti nei posti giusti. Il fatto che nel voto popolare ha perso per tre milioni di schede è la prova che il paese non è stupido. Adesso i canali televisivi e i politici di Washington sanno che Donald è un re nudo, ma gli sono attaccati come marinai con i piedi incatenati alla nave che affonda. Non possono liberarsi e non ammetteranno mai che hanno un idiota al potere, almeno non pubblicamente».

Quello che lei definisce un “idiota” per molti europei è comunque un “marziano”. Uno che forse neanche i Repubblicani convinti vorrebbero ospite a cena. Qui da noi la lettura è che i Democratici hanno sbagliato candidatura e che Trump ha preso i voti della gente che soffre, periferie, il Sud, operai delusi, un pezzo di classe media che si è risvegliata povera. Sbagliamo noi o in parte è questo che spiega il successo di un volto impresentabile?
«Ha colto abbastanza nel segno e qui la mia risposta è simile ai commenti che ho fatto prima. Però, non è atterrato un marziano. L’ha fatto uno stronzo e secondo me non finirà il suo mandato. Dipende da quanto fango i repubblicani sono disposti a mangiare, e se più democratici riescono a essere eletti».
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Almeno nessuno potrà accusarla di procedere per allusioni! Ma al netto di tutto, come definirebbe l’ala destra di Donald Trump?
«Non è un’ala destra. È un’ala rotta. Lui è la parte di paura e odio di uomini bianchi infuriati, e se è per questo, anche di donne bianche arrabbiate. Vogliono credere ciò che credono, a volte basandosi su una interpretazione biblica, accettare che gli uomini siano superiori e che tutto da sempre fa parte del loro territorio. È abbastanza raccapricciante però il prodotto che quella destra crea: la paura. E una certa parte della nostra popolazione la sta bevendo alla grande».

Anni fa ha detto “diffido di tutti i politici ma ho votato Obama e rivoterò per lui”. Oggi chi vorrebbe seduto nello Studio Ovale?
«Dannazione. Vorrei tanto avere di nuovo Obama. Ho amato Jimmy Carter ma non è stato un successo. Ma dire chi ci dovrebbe essere è complicato. Ho votato per Hillary Clinton nelle elezioni generali, per Bernie Sanders nelle primarie ma non sono sicuro che siano quelli giusti. Forse Bernie. Ma la sua età potrebbe essere un fattore negativo per alcuni elettori. Mi piace Elizabeth Warren, e un altro paio di persone, ma per ora le giovani stelle del partito democratico non sono cresciute abbastanza. Ci sono dei contendenti ma non si sono ancora affermati nel ring».

Anche noi che in America non siamo mai vissuti abbiamo capito che stare nel Texas descritto da lei non è la stessa cosa che avere casa a Manhattan. Ma cosa diventa quel Texas ai suoi occhi? Alcuni lo hanno definito un non-luogo letterario, nel senso che è un carico di simbologie.
«Io amo il Texas. Credo che se non fosse per il gerrymandering (è il modo per “disegnare” i collegi elettorali a vantaggio di un candidato potenziale. Per noialtri materia di attualità! ndr), il modo in cui i distretti elettorali sono suddivisi per favorire le popolazioni conservatrici, è altamente possibile che sarebbe uno stato moderato oppure liberale. Però il Texas è indipendente e dopo il recente uragano Harvey, Houston è già a buon punto nella ricostruzione. I texani non scherzano. In qualche modo si sentono un paese indipendente, e questo è insieme giusto e sbagliato. Ma io amo il Texas con tutti i suoi difetti. A volte ha scambiato ignoranza testarda per pensiero indipendente, ma resta un posto pieno di gente interessante anche se di certo circolano troppe armi. Insomma lo definirei uno stato mentale, un posto mitologico sulla terra reale».

Ha detto una volta che come per Stephen King anche per lei scrivere è una forma di terapia. Posso pensare che rovesci nei romanzi un po’ di quella sete di giustizia che spesso la politica o le aule di tribunale non riescono a garantire? Insomma: definirebbe la sua anche una forma di “letteratura civile”?
«A volte un libro è soltanto un libro, ma quando sono al mio meglio credo di riuscire a mettere dentro veri temi sociali e punti di vista politici, il che non vuol dire che penso ai miei personaggi come ad esempi da seguire. Sono imperfetti, a volte violentemente imperfetti, ma si impara dall’esempio. A volte s’impara da un brutto esempio. E se sei fortunato impari che il cattivo esempio è quello sbagliato da seguire. In verità, i miei personaggi sono un misto di fantasy, “supereroi” e gente normale. Hap e Leonard usano le pistole, il che non mi piace tanto, eppure è questo che sottolinea la posizione sbagliata di tanti di noi. A volte la violenza può risolvere sul serio le cose. Qualcuno cerca di farti del male e invece sei tu che fai male a lui; si potrebbe dire che questo sia giustificabile e, se ci riesci, si potrebbe dire che la violenza risolve alcune cose».

Le direbbero che sta sdoganando la giustizia “fai da te”.
«Il problema è più grande. I miei libri sono favole morali all’antica e i personaggi nei romanzi di Hap e Leonard, per esempio, sono semidei, come Ercole, che era un eroe ma anche un uomo imperfetto. Quello che mi interessa è la mancanza di perfezione. La violenza è una parte di come gli americani vedono e pensano che le cose possano essere risolte, ma dubito che qualcuno che legge i miei romanzi possa pensare: ecco, posso ammazzare la gente cattiva. Hap e Leonard non hanno sempre ragione, però sono sempre certi di stare dalla parte giusta. A volte questo li fa fallire miseramente e tutto quello che gli succede li cambia. Al fondo sono una leggenda e quando dico questo non intendo favole religiose, in nessun modo. Sono un ateo morale. Come i miei personaggi, sono imperfetto. E allora sì, le dico che in fin dei conti scrivere di cose tanto diverse è una sorta di terapia. Posso pensare, “accidenti, sto vivendo e me la cavo meglio che questi tizi”. Mi permette anche di prendere in esame idee e atteggiamenti scomodi».

A un certo punto del romanzo cita Rodney King e lo fa per dar conto dell’esecuzione di poliziotti bianchi su un ragazzo nero. King venne fermato e quasi linciato dopo un lunghissimo inseguimento. Non era un delinquente o un tossico anche se vent’anni dopo, quando lo hanno trovato morto in fondo a una piscina, l’inchiesta ha parlato di tracce di cocaina. Allora però era solo terrorizzato di rimetterci la licenza del taxi. Insomma, era una storia di razzismo, certo, ma dietro c’era anche la paura di perdere il lavoro. Parliamo del 1991, un secolo fa. Se le chiedo di mescolare razzismo e nuova miseria nell’America dopo la Grande Crisi (quella esplosa nel 2008) che cosa è diventato il suo paese dopo l’11 settembre e dopo il fallimento della Lehman?
Il personaggio
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«Negli Stati Uniti, i neri e la polizia hanno sempre avuto un rapporto scomodo. È una delle ragioni per cui tanti di loro non parlano di crimini anche quando potrebbero dare informazioni utili. Succede soprattutto in zone che sono economicamente depresse. Visto che sono poveri vengono trattati come cittadini di seconda classe, come se fossero nati con il desiderio di essere dei fallimenti e vivere in povertà. Questo non rende un criminale meno criminale, ma dovrebbe aiutarci a capire meglio che le opportunità più giuste portano a delle possibilità migliori, e questo vale per tutti. Spesso però i neri sono messi in situazioni davvero terribili. Ora va molto meglio, ma mi fa venire il voltastomaco pensare a tutti i grandi talenti che sono andati perduti a causa di povertà, razzismo o della brutalità della polizia. Anche qualcuno nato in povertà - e io sono uno di loro - nero o bianco, verde o marrone o a pois, ha iniziato con una gamba in una fossa ma per alcuni quella fossa è semplicemente troppo profonda. Possiamo fare meglio come paese e possiamo fare meglio come popolo. Dobbiamo dare a quelli che sono senza diritti civili, a prescindere dal colore della pelle, una ragione per sperare. Questo, Trump non lo fa. E i suoi sostenitori non riescono neanche a capire quando è Trump in persona che gli sta pisciando sulla testa. Lui dice che è la pioggia e loro ci credono».
Joe Lansdale

Ha anche detto che il suo scrittore preferito è Philip José Farmer, autore di fantascienza e la motivazione mi pareva stupenda: perché «ha la capacità “magica” di essere lo scrittore migliore e peggiore del mondo nella stessa frase». È il suo modo per dire che non esistono scrittori “alti” e “bassi” e che non riconosce una gerarchia di genere nella letteratura?
«Lui è il mio scrittore di fantascienza preferito e uno dei miei preferiti in generale. Senza dubbio mi ha molto influenzato. Aveva una fantasia scatenata, e leggere i suoi libri liberava scintille che hanno preso fuoco dentro di me. Mi ha insegnato come guardare una storia in modo diverso. Era piuttosto irregolare, ma quando scriveva bene, scriveva benissimo. Non ci sono scrittori alti o bassi. Ce ne sono di bravi o cattivi, e persino i bravi non sono sempre bravi. Ma quelli veramente cattivi tendono a essere quasi esclusivamente cattivi».

Gli ultimi dieci anni sono stati quelli della crisi più grave dopo quella del 1929, la sua ambientazione di “Acqua buia”. Voi in buona misura avete recuperato i posti di lavoro persi anche se la maggior parte degli americani se la passa peggio. Succede sempre che da una grande crisi si esca con un mondo completamente rovesciato nei valori o nell’idea stessa di come deve funzionare la democrazia. Lei pensa sia possibile che questo nuovo ordine - qualcuno lo ha chiamato il nuovo ’68 - lo faccia la destra sulla base dei suoi principi?
«A dire il vero, questa crisi non ha niente a che fare con quella del ’29. Neanche lontanamente. Quelli erano davvero tempi duri. La nostra è una contrazione, ma niente a che vedere con la Grande Depressione. Nessuno aveva un lavoro. La gente era al massimo della disperazione. Erano poveri e non esisteva l’assistenza sociale. Le banche non erano assicurate. E no, non si possono paragonare le due situazioni. Sembra molto peggio se guardi il notiziario, di nuovo quel servizio 24 ore su 24. Con questo non sto liquidando o sottovalutando questa crisi, ma nego che assomigli alla Grande Depressione. I miei genitori lo hanno vissuto e quelli erano tempi veramente duri per la finanza, il razzismo e le donne. Non c’è paragone».

Io, come tanti, “gioco” con la lingua che lei usa. Nel senso che quella crudezza e brutalità dei dialoghi non mi sembra messa lì per caso. Ha la funzione di precipitarti nel mondo che descrive e lo fa togliendo ogni alibi da intellettuale o benpensante. Mi faccia capire: spinge il linguaggio fino al paradosso, a volte della violenza, anche per sdrammatizzarne il contenuto, un po’ come succedeva in “Pulp Fiction”? Insomma posso pensare che il Tarantino di “Bastardi senza gloria” o “Django unchained” abbia letto Lansdale e comunque le piacerebbe se lo avesse fatto?
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«Non so se Tarantino abbia letto i miei libri, ma una cosa la so: non mi ha influenzato, visto che sono arrivato prima io. Dico questo non per sminuire il suo talento ma solo per dire che lui è lui e io sono io. Però la sua valutazione è corretta. Sto molto attento al linguaggio e ho uno scopo. Chiunque può offendere, ma ci vuole uno sforzo vero per offendere profondamente. Io cerco di mettere in questione i miei punti di vista e anche quelli degli altri. Provo a bucare dei palloncini pieni d’acqua che sono la nostra chiusura mentale. Non dico di azzeccarci sempre né mi ritengo così saggio. Sto solo facendo un tentativo: fare le domande giuste e insieme offrire le risposte giuste, il tutto sotto la veste dell’intrattenimento. Le risposte non dovrebbero essere facili, a volte una risposta è giusta per una cosa ma non per tutte, oppure andava bene nel passato ma non più nel presente. La vita ha delle sfumature, non è tutta dello stesso colore. Dobbiamo aprirla per vedere ciò che contiene davvero, scoprire cosa è dolce e cosa è marcio. Sì, ho scritto delle cose che non sono soltanto leggere. La mia roba migliore è pesante ma sostenuta come se ci fosse dell’elio. O almeno spero sia così. Persino una formica può spostare delle cose più grandi di lei, e a volte noi scrittori possiamo fare la stessa cosa».

Da anni in Italia i generi del giallo e del noir dominano la produzione. In pratica abbiamo un commissario di polizia per ogni regione. Direi che nella media sono più politically correct di Hap e Leonard e non solo nello slang, ma immagino che questa sia questione di stili. Lei come spiega questa invasione di investigatori e del fatto che siano proprio quei generi a occupare uno spazio così vasto della narrativa? È il segno che non abbiamo altre storie epiche da raccontare?
«Siamo tutti curiosi e questo è ciò che il mistero e il crimine offre, curiosità e soluzioni, se non altro al mistero. Ma i romanzi criminali fanno questo e ci obbligano a pensare altre cose. O almeno i migliori fanno così. Ci danno un nuovo modo di vedere la vita. Esito a dire una veduta realistica perché questo dipende dall’occhio di chi guarda. Molti dei miei romanzi sono una combinazione di storie criminali tradizionali, satira, leggenda, mitologia, e la pura gioia di raccontare storie. Dico bugie per divertimento e profitto».

Anche in questa ultima scorreria di Hap e Leonard ha scritto pagine di descrizione quasi minuziosa del corpo a corpo. Lì c’è la sua passione per le arti marziali di cui ha parlato spesso e che ha praticato. Ma quanto riversa nelle sue pagine della “filosofia” di quelle pratiche?
«C’è molta di quella filosofia. Ho praticato le arti marziali per 55 anni. Cerco di catturarne gli aspetti reali e teatrali. Tanti dei suoi insegnamenti. Non fare del male finché non hai più scelta e poi non farne più del necessario. L’economia di movimenti. Essere in contatto, e rimanere in contatto, che vuol dire consapevolezza, e mantenere il proprio equilibrio. Tutto questo vale nella vita di ogni giorno. È molto più complicato di così, ma dovrebbe bastare per darti un’idea».

Ancora sui nostri “eroi” che nascono con “Una stagione selvaggia”. Hap, bianco, democratico, eterosessuale. Leonard, nero, gay, di tendenze repubblicane o giù di lì. Li ha voluti così per la curiosità del contrasto, e basterebbe questo a riempire una trama, oppure era un gioco per ribaltare qualche stereotipo di quelli duri a morire?
«Hap è basato su di me, Leonard su tante persone, ma in certe cose sono due lati dello stesso personaggio. Nessuno è completamente in un modo oppure nell’altro. Tutti abbiamo cose in cui crediamo, e poi abbiamo le cose che facciamo. È meglio quando le convinzioni sono positive, e vivi secondo loro. Ma il contrasto è importante. Dà ai personaggi qualcosa di cui parlare, e al lettore qualcosa su cui riflettere. A volte penso che uno di loro abbia più ragione dell’altro. Leonard è un uomo pratico e accetta ciò che è. Hap pensa di avere tradito i suoi ideali, anche quando cerca di vivere rispettandoli. Vuole la pace ma commette violenze per mantenerla e a volte le sue scelte sono semplicemente sbagliate. Leonard fa ciò che è necessario. Anche questo ha delle conseguenze. Alcune buone, altre cattive. Quindi i personaggi sono Yin e Yang, e si scambiano queste posizioni».

Simenon diceva di pescare i nomi dei suoi protagonisti dall’elenco telefonico e aveva una rapidità di scrittura indotta anche da rigidi orari di lavoro, come fosse un impiegato. Lei dove raccoglie lo spunto delle sue storie? E come Simenon rispetta orari e luoghi precisi per completare un romanzo?
«Di solito, scrivo ogni mattina. Non c’è una regola. Nessuna tabella di marcia. Mi sveglio quando mi sveglio, bevo un caffè, leggo le e-mail, porto fuori il cane. E poi comincio. Lavoro circa tre ore. Il mio obiettivo è scrivere dalle tre alle cinque pagine al giorno. Spesso ne scrivo di più. Ogni tanto scrivo anche nel pomeriggio o di notte. Ma non programmo. Non ho schemi. Scrivo. Le mie storie vengono da quello che leggo, quello che vedo, quello che ho vissuto, e anche dalle vite degli altri».

Forse sa che in Italia voteremo tra pochi mesi. La sinistra si presenterà divisa e purtroppo non è una novità. La destra sarà guidata ancora da Berlusconi che divenne capo del governo per la prima volta nel marzo del ’94, quando Clinton non era ancora a metà del suo primo mandato. Cosa le fa pensare il fatto che un miliardario occupi la scena politica di una grande nazione dell’Occidente per oltre un quarto di secolo?
«Mi sembra che le vostre elezioni e la vostra situazione siano simili alle nostre. Il maschio miliardario si candida contro il resto di noi, e una parte del resto di noi lo vota. Le ragioni in Italia sono le stesse che qui. Quindi, guarda la mia risposta che parla della nostra situazione politica, sciacquare e ripetere. Poi, la parte liberale dei partiti crede nelle sfumature, i conservatori raramente. Si candidano più per vincere che per governare. Non ci sono assolutismi, ma in generale credo sia così».

Letteratura, cinema, musica… Per noi europei l’America è quella realtà che ci ha sempre aiutato a vedere il mondo per come sarebbe diventato. Lei cosa ha amato di più dell’Italia?
«Sarò sincero: la gente. Il cibo. Il paesaggio. Queste tre cose sono magnifiche».

Secondo lei chi sono oggi i “buoni” e chi i “cattivi”? E per chi fa il tifo?
«È troppo complesso. Vedo l’America come uno dei buoni, e forse è ancora il buono più importante. Dipende se Trump e quelli come lui saranno soltanto un contrattempo o si riveleranno una piaga».

Joe, sono quasi vecchio e a questo punto devo saperlo. Meglio Batman o Superman?
«Superman è invulnerabile, ma i miei gusti e il mio amore vanno tutti per Batman, senza alcun dubbio. Il fatto che sia un essere umano, che sia disposto ad allenarsi e ad imparare così tanto, ne fa un esempio da seguire per tutti noi. Non possiamo essere Batman, ma possiamo combattere esattamente come lui per la giustizia e per la conoscenza».

Grazie, è fatta: alle prossime primarie candidiamo Batman!