Il maestro introduce i lettori dell’Espresso all'inaugurazione scaligera del 7 dicembre. E ci racconta quali sono stati i gli interpreti storici dell'opera in disco. Da Gigli a Del Monaco, da Domingo a Pavarotti, con il quale la incise in studio
Riccardo Chailly è stato buon profeta con il suo progetto di rivalutare il Verismo, «periodo unico e marchio di fabbrica musicale tutto italiano che va valorizzato perché a torto considerato minore». Così l’”Andrea Chenier” di Umberto Giordano, opera spesso sottovalutata dalla critica musicale, descritta con una serie di aggettivi che si rifanno al “nazionalpopolare”, nel frattempo ha avuto modo di dimostrare il suo autentico valore. Per rimanere solo a quest’anno, il divo Jonas Kaufmann l’ha cantata con successo a Monaco di Baviera e Parigi e all’Opera di Roma s’è fatta valere sotto la bacchetta di Roberto Abbado. E il 7 dicembre aprirà la stagione lirica della Scala.
«Un’opera che mi è stata sempre a fianco nella carriera», ci spiega il maestro milanese. «La registrai nel 1984 con Luciano Pavarotti, con grandi presenze nel cast come quelle di Christa Ludwig e Montserrat Caballé. Con quest’opera ho inoltre debuttato alla Staatsoper di Vienna. Poi alla Scala per due stagioni. A proposito: consideri che manca alla sala del Piermarini da trent’anni. Secondo me rappresenta in pieno non solo la tradizione italiana di fine Ottocento ma uno dei veri capolavori, emblema del Verismo, che ha suscitato fin dalla prima scaligera, avvenuta nel 1896, un assoluto desiderio d’ascolto da parte dei milanesi. E’ un titolo che come lo si annuncia esaurisce tutti i posti, attraendo irresistibilmente la passione della gente».
Un’opera amata anche da Gustav Mahler. «La diresse sei volte all’Opera di Amburgo. Stimava particolarmente la musica di Giordano, tant’è che a Vienna dove era Generalmusikdirektor fece mettere in scena anche un’altra sua partitura, quella di “Fedora”. Dichiarando più volte la sua ammirazione per la qualità dell’orchestrazione, per i suoi colori strumentali. Infatti, mentre si è conquistati dalle grandi melodie dei duetti e dei concertati, ci si accorge che nelle parti armoniche c’è tutto un movimento ritmico sotterraneo nuovo per l’epoca. Un capolavoro del Verismo che annunciò un cambiamento storico nel melodramma italiano. Vi vengono scelti temi molto più popolari, molto più legati alla quotidianità, alla realtà politica, a storie di vita. In questo rapporto fra verità e racconto musicale c’è stato da parte di Giordano un impegno superbo».
Un'opera da subito amata dai grandi interpreti vocali: Tamagno la cantò a Buenos Aires, Battistini a Mosca e Pietroburgo, il grande Caruso al Covent Garden di Londra. Avanti negli anni fino a Bergonzi e Domingo. Valori che furono compresi dal mercato discografico, che già nel 1930 ne pubblicò la prima incisione proprio a cura dei complessi scaligeri diretti da Lorenzo Molajoli. Ma l’edizione di riferimento si ebbe nel 1941. Grande protagonista ne fu Beniamino Gigli. Con la sua linea di canto morbida ed elastica, contraddistinta da uno snello fraseggio, cangianti colori, gli acuti facili ed eleganti. A cui faceva da contraltare il Gerard di Gino Bechi dalla dizione e declamazione nettissime, brusche, quasi attoriali.
Maddalena vi era Maria Caniglia, che Chailly ebbe poi modo di conoscere a Chicago: «Il Verismo in quella versione vi raggiunse un’eleganza e una sobrietà eccezionali. Con la Caniglia discussi della vocalità del suo tempo e di questo “Chenier” pietra di paragone della storia dell’interpretazione. Non bisogna dimenticare quello che Gigli ci ha lasciato. Le cose aggiunte, non scritte prettamente da Giordano: a esempio qualche fermata in più su qualche nota specifica che sottolineano una parola, o degli indugi che sono sempre legati all’espressione e al testo, mai autoreferenziali. È anche un percorso di riferimento che sto facendo con i cantanti per questo nuovo progetto».
Improponibile il paragone con le interpretazioni di Mario Del Monaco degli anni Cinquanta. Lui era il Verismo fatto persona come lo si intendeva con qualche semplificazione nel dopoguerra. Con l’estremizzazione di ogni accento, il trionfo del registro centrale al culmine della sua enfasi retorica. In due incisioni diretto da Antonino Votto e Gianandrea Gavazzeni, con accanto due divine maddalene, ovvero, rispettivamente, Maria Callas e Renata Tebaldi, che paiono intimorite dinanzi al fragoroso collega. Spiega Chailly: «Quello era un canto stentoreo. Molto forte, molto bello, legato anche a quell’incisione magnificamente diretta da Gavazzeni. Ma oggi si può cercare di avvicinarsi di più a quella che è stata la lezione del passato. Un’operazione affascinante, non solo per Chenier, ma anche per gli altri ruoli. E un punto importante di riflessione: a me sembra necessario riportare l’attenzione sul valore intrinseco di questa partitura».
Chailly è stato protagonista dell’unica incisione di quest’opera di Luciano Pavarotti, che mai la cantò sul palcoscenico, nel 1984. Un’esibizione in gran spolvero: indimenticabili i suoi acuti nell’”Improvviso”. «Ho sempre lavorato molto bene con Luciano», ricorda Chailly,«La registrazione in qualche maniera si adeguò al progetto discografico. Partì infatti dalle tre romanze famose. Facemmo poi molte sedute sia al pianoforte che in sala d'incisione». L’anno successivo ci fu il video con José Carreras nel ruolo del titolo. Con la sua voce morbida e la fascinosa comunicativa, pareva naturalmente indirizzato verso esiti “alla Gigli”. «Con Carreras portammo lo “Chenier” anche a Vienna. Ricordo il fanatismo del pubblico, completamente conquistato da questa musica». La voce di Carreras era più simile a quella di Gigli, rispetto a quella di Pavarotti? «Senz’altro possedeva un temperamento più lirico. Ma lo “Chenier” sopporta e accetta tutte le vocalità, si passa da Del Monaco a Corelli, per poi arrivare appunto a Pavarotti e a Carreras, raggiungendo sempre esiti credibilissimi. Si tratta poi di vedere come queste letture si impostano a livello interpretativo con il direttore d’orchestra».
Il 7 dicembre, insieme al Gerard di Luca Salsi e alla Maddalena di Anna Netrebko, «Con la “Giovanna d’arco” fu una partenza straordinaria della nostra collaborazione. La rinnoviamo pensando al futuro e ad altri progetti» sottolinea il maestro, di questa versione milanese sarà protagonista vocale nel ruolo del titolo il marito della grande cantante, Yusif Eyvazov. Con lui Chailly ha iniziato da tempo a preparare la parte. «Siccome è dotato di grandi potenzialità, m’interessava verificare la disponibilità a “piegare” la sua voce drammatica a quel tipo di intenzioni che si rifanno alla vecchia tradizione interpretativa. Lui sta lavorando con me, sta facendo un percorso di cambiamento, di rientro stilistico al fine di recuperarle».
Per quanto riguarda la regia di questo Sant’Ambrogio non dovrebbero esserci sorprese del genere provocatorio, del tipo di quelle della “Giovanna d’Arco” del 2015. «Il realismo di Mario Martone prosegue un discorso di rispetto della tradizione e rinnovamento dell’immagine visiva, fondamentale per capire bene i valori dello “Chenier”. Doti già mostrate qui alla Scala con “Cavalleria rusticana” e “La cena delle beffe”».