Le grandi metropoli e i centri dell'arte vivono ormai da anni un fiorire continuo di ristoranti e bar glamour che prendono il posto di cinema, fabbriche e botteghe locali. Così, da Roma a San Pietroburgo, sembra di essere sempre nello stesso posto
Non è solo lo shopping a farci scoprire cosa tiene in vita la città. Sui marciapiedi del centro in cerca di gadget e souvenir, ci viene un vuoto allo stomaco, una vertigine, deve essere perché siamo per strada, camminiamo, e fa troppo freddo, o troppo caldo, c’è gente dappertutto, la confusione, il rumore. Ci accorgiamo che si è inanellata una fila di bar e caffè, una catena indistinta pop e superlusso di prêt-à-manger, pizze e kebab, ristoranti ingentiliti da piantine di rosmarino provenzale, pasticcerie viennesi con nuove poltroncine déco e fette giganti di torte già tagliate, Philippe Starck lounge-bar sempre più neri sempre più dorati.
Elusa ogni minaccia di carestia, l’Occidente ricco ha sempre fame, ogni ora del giorno e della notte. Fame di dolci, di panini, di piatti soffici e consolatori o esasperatamente coreografici e sofisticati, di spaghetti caldi in scatole di cartone e ostriche servite su alzatine ghiacciate in locali che si aprono madreperlati come ostriche, dove le perle siamo noi, da lisciare, (s)fregare per bene fino a consumarci.
Qualcuno dell’ufficio marketing di una qualunque holding della terra deve avere indetto una riunione, aperto un power-point sulla parete di fronte al lungo tavolone, configurato la google map del centro cittadino e piantato le sue bandierine rosse su ogni porta a vetri e saracinesca chiusa del quadrilatero più o meno grande della città. Non solo nella quale si trova, siamo pur sempre nel mondo globale, ma di ogni città si sia docilmente arresa al suo demone amante, quello del business del cibo, dell’intrattenimento gastronomico, del genere di consumismo che tiene insieme shopping e eating, compera e mangia, e che investe su ogni interesse o azione umana: guarda e mangia, cammina e mangia, leggi e mangia - librerie di tutto il mondo non mancano del loro spazio conforto.
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Mangiare, che consideriamo un piacere oltre che una necessità, ha assunto l’urgenza di una dipendenza, un desiderio indotto a cui è difficile sottrarsi. La voglia viene, non fosse altro che per la mole di sollecitazioni che arrivano dalla strada, dal modo facile in cui ci arrivano addosso, dal linguaggio estetico con cui ci vengono segnalate, un codice riconoscibile e ripetibile ovunque, forzatamente martellanti, appetibili, fatte in serie, un po’ uguali un po’ finte dappertutto. A fare un po’ finta, falsa, la città. Basta puntare lo sguardo sull’arredo interno dei locali del centro, per lo più vintage, morbido, illuminato dalla luce calda di anni premoderni senza led, tavoli di legno grezzo, ingredienti genuini dell’epoca pre-industriale in bella vista, barattoli di conserva con le etichette disegnate e una qualche immagine di donna di rassicurante tradizione familiare, foto di nonni e padri che hanno iniziato con poco e guarda dove sono arrivati, pacchi di pasta, salami e prosciutti appesi come in quei vecchi, e chiusi, negozi di alimentari, le drogherie, gli empori piccoli e ingombri, dove quella roba te la portavi via per cucinarla a casa.
Che siano tutti uguali questi posti ce ne siamo accorti, che le strade siano omologate dagli stessi interni di bar e caffè più o meno uguali dappertutto, che per quantità di spazio occupato stiano cambiando forma alla città, è davanti ai nostri occhi già da qualche tempo, con una certa accelerazione negli ultimi anni.
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La gentrification ha bisogno della beautification, l’imbellimento, l’estetista, la truccatrice, che imbelletta ogni commercio. Chi non ha chiuso per lasciare il posto alla perpetuazione di un marchio, ha pensato di doversi rifare un po’ il look, come ogni panificio sotto casa che oggi è una boutique del pane, con il casereccio che dagli scaffali d’argento finisce in sacchetti rosa confetto dall’aria un po’ sexy. Così come il formaggiaio, il salumiere, l’alimentari sono vetrine di una nuova Tiffany, dove l’agio di un’estetica esclusiva fa pensare che niente di male può accaderci, dove sentirsi meglio se si è un po’ giù è possibile, direbbe Holly Golightly, se solo quei viveri fossero gioielli da desiderare.
Si può andare a Singapore, Hong Kong, San Francisco, e rivedere più o meno gli stessi posti, lo stesso ordine estetico, lo stesso menu, lo stesso uso dello spazio, lo stesso abuso compiaciuto dell’anonimato, con quell’ordinario color pastello con cui si presenta sulla scena urbana il mondo del compro-mangio. Se anche a Oxford nemmeno la tradizione secolare dei suoi storici pub e il teatro monarchico dei suoi rituali high table più classisti, ha difeso dall’attacco mercenario di questo esercito che occupa il territorio ripulendo, abbattendo, violentando ogni esercizio pubblico, rimbambolendo la città che si ritrova a gambe all’aria e senza vita come una love doll, plastica e silicone, la bocca sempre aperta, sempre pronta e accogliente, seduta sulle seggioline da giardino di un vecchio pub ringiovanito di cent’anni con l’aria rassicurante di una sala da tè.
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Roma: questo era un cinema, mi dice il cameriere. È enorme, i muri li hanno liberati dall’intonaco per lasciare posto al rosso rustico dei mattoni, la sala l’hanno suddivisa in tre zone, tra il bancone di recupero di un bar latteria che ha chiuso l’anno scorso, i tavoli e le sedie di ferro invecchiato, i libri e qualche poltrona del cinema rimasta a mo’ di souvenir che fanno tanto cool, l’estetica viaggia tra Berlino e New York - se non fosse per quello spaghetto, pecorino, pepe nero esotico di Sarawak, sugo preparato pronto, un vasetto quattro dosi che è il cacio e pepe kit, sul ripiano della cassa, confezione portatile con manico da viaggio.
Parigi: questo invece era un asilo, una scuola materna, si vedono ancora i disegni dei bambini, li abbiamo lasciati, mi dice il manager, sono carini e ricordano un po’ l’infanzia, alla gente piace, fanno tenerezza. È un intero edificio adibito a ristorante, pizzeria, kinder garden, wine bar, bigliardo, calcetto e pianoforte, ce n’è per tutte le generazioni con qualche effetto di ludica nostalgia che mischia un po’ le età.
Londra: questa era una fabbrica, la giovane proprietaria cinese l’ha comperata cash, mi dice in italiano chi mi accompagna al tavolo con la sua uniforme rigorosamente total black. Appena un anno e ne ha fatto uno dei suoi lussuosissimi alberghi col bar stile salotto inglese, pelle e tappeti, abatjour e austera libreria a foderare le pareti. Ma dovresti vedere Spitafield, continua, diventato un quartiere-market, saturato di caffè e bancarelle di sandwich, pub, ristoranti e affini, dove la gente cammina mangia compera tra fashion, pizza napoletana, e case di lusso.
Venezia: qui c’era un orafo, e qui un corniciaio, qui un bar di quelli che ci si trovava ogni sera a bere uno spritz, a mangiare un cichetto, polpette e sarde in saor, racconta uno dei tanti artisti artigiani della città. Al loro posto hanno aperto nell’ordine: un pizza-kebab, un pizza-kebab, un pizza-kebab.
San Pietroburgo: era un teatro, di quelli con la sala enorme, e il foyer con i lampadari a goccia e l’aria elitaria, pesante di stucchi, ma elegante, sfarzosa, mi dice la cassiera del nuovo coffee bar con i bagel farciti nella vetrinetta, un angolo di sgabelli e tavoli alti dentro il nuovo centro commerciale che ospita take-away, gelaterie, e un nuovo negozio della catena Candy shop, le gelatine multiformi uniformemente al sapore di colla di pesce che forse hanno confuso la città con un altro luna park. O ne sono il simbolo?
Madrid: qui non c’era niente, case e palazzi, ma nel giro di pochi anni sono sbucati dai muri negozi di souvenir e pizza da asporto, li vedi?, mi dice l’amica che vive qui da due anni. Il fruttivendolo sta ristrutturando, il vecchio bar di quartiere se lo è preso una nuova catena metà enoteca, metà osteria, metà prodotti a chilometro zero. Non che non sia più viva, ma non ti sembra un po’ meno Madrid?