Abbandonato in fretta e furia dai proprietari, perlopiù greco-ciprioti, in fuga nell’estate del ’74 dal blitz “Attila” sferrato dall’esercito turco in reazione al golpe ordito a Nicosia dai colonnelli di Atene. Simbolo di un conflitto etnico non ancora risolto che spacca in due l’isola con la “linea verde” lunga 180 chilometri, dividendo lo Stato di etnia greca da quello di etnia turca. L’ultimo muro d’Europa presidiato dai caschi blu dell’Onu.
I rari testimoni che con il permesso di Ankara hanno potuto avventurarsi nel cuore del deserto urbano segnalano scorci surreali. Palazzi corrosi che sembrano colpiti dalla lebbra ostentano le cicatrici dei bombardamenti. Squarci da cui traspare la collezione di arredamenti, suppellettili, oggetti fermi nel tempo. Un letto sfatto. Una tazzina con i residui di caffé abbandonata su una mensola.
Una libreria frantumata dai tarli e dalla polvere. Un mondo senza più anima, come cristallizzato dopo un’esplosione nucleare. La vita riprende quota tutt’intorno, con le macerie divorate gradatamente dalla natura incontrollata che si espande e in cui il verde selvaggio sovrasta il grigiore immoto delle atmosfere postbelliche. Solo ai margini del lager dei fantasmi sopravvive un residuo di normalità balneare (un albergo con ombrelloni e sdraio). Affaccio su acque incontaminate, in cui a causa della totale assenza di inquinamento nidificano colonie di tartarughe rare. Sentinella di una stagione perduta e che presto potrebbe tornare.
Un tempo sospeso che una febbrile attività diplomatica negli ultimi mesi sta cercando di rimettere in moto. I presidenti dei due Stati che a causa della guerra civile del ’74 (oltre 10 mila vittime fra morti e scomparsi) non smettono ancora del tutto di guardarsi in cagnesco sono impegnati per sanare la grande ferita e riunire le due comunità in una Federazione riportando le lancette della storia al 1960, l’anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Tentativo già abortito nel 2004, quando fallì il primo referendum per la riunificazione. La Repubblica turca di Cipro Nord autoproclamata nell’83 (circa 300 mila residenti, musulmani, su un territorio che copre poco più di un terzo dell’isola) approvò il progetto con il 64,9 di “sì”; la Repubblica di Cipro (circa 700 mila perlopiù greci cristiano-ortodossi, su poco meno dei due terzi dell’estensione, che subito dopo entrarono nella Ue) lo affossò con il 75,8 di “no”.
Oggi la crisi mondiale e la scoperta di giacimenti petroliferi nelle acque di entrambi gli Stati favoriscono, al di là delle diffidenze radicate nel sanguinoso conflitto, l’opportunità di nuove convergenze. I greci potrebbero investire nel turismo (le spiagge e i monasteri più suggestivi sono al Nord) e nel rilancio degli importanti porti settentrionali (primo fra tutti proprio Famagosta).

I turchi, che hanno un reddito pro capite di due terzi inferiore a quello dei greci e si appoggiano alle stampelle di Ankara (elargisce ogni anno 600 milioni di euro a fondo perduto, un terzo del bilancio statale, e protegge lo staterello con 30 mila soldati), sfuggirebbero alle tagliole di un embargo che li isola dal resto del mondo (la Repubblica turca di Cipro Nord è riconosciuta solo da Ankara che non ha relazioni con i greci del Sud). Possono esportare e importare prodotti esclusivamente attraverso la Turchia. I loro porti rimangono illegali. E anche l’aeroporto di Ercan è semiclandestino: ci sono collegamenti diretti assicurati da quattro compagnie solo con la Turchia. L’alternativa è transitare (vale per entrambi i sensi con la semplice esibizione del passaporto) attraverso uno dei sette varchi aperti lungo la “linea verde” e raggiungere al Sud lo scalo di Larnaca. Per paradosso, in attesa dello sbocco del negoziato, anche i turcociprioti (esclusi gli immigrati provenienti dall’Anatolia, attratti nell’isola dai salari più ricchi) possono disporre di un passaporto europeo pur risiedendo in un territorio sì diviso, ma teoricamente sotto la sovranità del Sud riconosciuto dall’Onu.
Il leader che più si batte per la riunificazione che costerebbe circa 30 miliardi di euro è il presidente dei turcociprioti Mustafa Akinci, 68 anni, capo del partito socialdemocratico (simbolo: un ramoscello d’ulivo), soprannominato “l’uomo della pace”. Un enfant prodige nato a Limassol, oggi il principale porto del Sud, che a soli 28 anni fu eletto sindaco di Lefkosa (la capitale di Cipro Nord). Molto popolare fra i ceti medio bassi, mantenne la carica per 14 anni, scontrandosi spesso con i conservatori al potere legati con una sorta di cordone ombelicale ad Ankara. Nel 2015 è diventato presidente con oltre il 60 per cento dei consensi. Spirito autonomo, è insofferente ai diktat di Ankara. Non ha esitato a entrare in rotta di collisione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il grande protettore, rivendicando maggiore indipendenza in un memorabile duello televisivo.
La sua bussola è la riunificazione, che lo ha indotto a stringere rapporti sempre meno conflittuali con Nikos Anastasiadis, il presidente conservatore della Repubblica del Sud. Per circa un anno i due leader hanno cercato di limare le divergenze nei vertici lungo la linea di demarcazione. Negli ultimi mesi del 2016 è salito il livello delle trattative, condotte a Mont Pelerin (vicino al lago di Ginevra) sotto l’egida dell’Onu e con la partecipazione dei garanti esterni (Turchia, Grecia e Gran Bretagna, l’ex potenza coloniale che prima dell’indipendenza governava l’isola e conserva ancora nel Sud due basi navali.
Con una tabella di marcia molto serrata (in poche sedute sono stati approvati quattro dei sei dossier) per giungere a un rapido accordo e lanciare un nuovo referendum. Si era quasi già raggiunto un compromesso sulla rotazione delle presidenze e sulla restituzione o compensazione a chi durante la guerra aveva dovuto abbandonare le proprietà. Ma l’obiettivo ravvicinato è svanito per una catena di ostacoli imprevisti. Primo fra tutti l’irrigidimento di Erdogan che non intende ritirare i suoi soldati (richiesta considerata non negoziabile per il Sud). Ma, sia pure più in sordina, il negoziato è ripreso in gennaio quando i due leader si sono scambiati per la prima volta le rispettive mappe dell’isola. Un gesto interpretato con ottimismo dal segretario dell’Onu, che pur non si aspetta miracoli, e dalla Ue pronta a stanziare oltre tre miliardi di euro per accelerare l’integrazione.
Akinci non ha il pieno appoggio del suo governo (un gabinetto conservatore presieduto dal premier Huseyin Ozgurgun). La fronda è guidata dal ministro degli Esteri Tahsin Ertugruloglu, che liquida come “tecnicamente improponibile l’accordo fra i due Stati, perché Cipro greca non rinuncerà al progetto di dominio e sulla questione la Ue non è neutrale”. In alternativa il ministro accarezza l’idea di un’annessione alla madre patria, avvicinandosi al pensiero di Erdogan che nello staterello del Nord attribuisce più peso all’influenza turca che a quella cipriota.
Nella Repubblica greca gli slanci si sono un po’ raffreddati perché in primavera inizia la campagna elettorale per la presidenza. Anastasiadis non può sbilanciarsi più di tanto, incalzato dal fronte del nazionalismo greco che si è irrobustito con l’ingresso in Parlamento di una serie di partitini agguerriti, contrari alla partecipazione al voto degli emigrati dalla Turchia.
La quotidianità scorre sonnacchiosa nello staterello del Nord, abituato a vivere in una sorta di limbo e privo della necessaria autonomia per decidere da solo il proprio destino. Lefkosa, appendice settentrionale della più vivace Nicosia (la capitale del Sud divisa dal muro), si anima nei mercatini della città vecchia che attirano soprattutto i turisti (800 mila l’anno). I mercanti sono prevalentemente emigrati dall’Anatolia. Fanno comunità a sé coltivando le loro tradizioni religiose. Ma l’integralismo sunnita non ha attecchito a Cipro Nord. La società civile è laica, proiettata verso la modernità e l’abbattimento delle barriere. “L’integrazione”, assicura Fikri Toros, presidente della Camera di Commercio, “conviene a tutti. E’ un traguardo che non si può fallire. Solo questione di tempo”.
Per i giovani la “linea verde” è già un reperto da museo. Chattano in inglese con i coetanei del Sud, si scambiano amicizie, demoliscono i vecchi pregiudizi che spingevano a demonizzare gli esponenti dell’altra comunità. I salari sono bassi (la media è di 500 euro al mese) e i più ambiziosi emigrano in Turchia o Gran Bretagna. Durante la stagione estiva il turismo balneare rompe l’isolamento e riporta anche Cipro Nord nei circuiti internazionali. Nell’attesa di uno sbocco, si è dato forte impulso all’educazione con il lancio di centri di eccellenza. La Eastern Mediterranean University, alla periferia di Famagosta, istruisce in un campus modernissimo 20 mila studenti di 106 paesi.
Sulle colline dietro Girne, rinomata località balneare, sorge una gigantesca statua di Kemal Ataturk (il padre della Turchia post-ottomana) che medita sotto il cielo. Sembra incerta anche l’icona sul futuro di uno Stato senza una precisa identità, aggrappato alla madre patria turca e insieme sempre più orientato a tuffarsi in Europa legandosi all’ex nemico. Una schizofrenia che continua a relegare Cipro Nord fra le bizzarrie della storia.