Il nostro paese dal 2010 prevede la possibilità di cure palliative, con indicazioni all'avanguardia: purtroppo gran parte dei cittadini le ignora e persino tra i medici la percentuale di chi conosce la materia è bassa. A questo si aggiunge un enorme divario tra Nord e Sud. E un profondo problema culturale

È una legge dello Stato che garantisce l’accesso alla terapia del dolore e il diritto a non soffrire, ma pochi la conoscono. Lo ha certificato un’indagine dell’associazione “vivere senza dolore”: neanche il 20 percento degli italiani è al corrente della normativa che regola le cure palliative.

Esiste, quindi, un ramo della medicina capace di alleviare le sofferenze dei malati ancora poco sfruttato in Italia, perché si scontra con diversi aspetti tipici di una cultura radicata. A cominciare dalla forte diffidenza nell’impiego di oppiacei, tanto che da noi la spesa pro capite in quest’ambito è pari a 1,6 euro, contro i 5 della media europea e i ben 10 della Germania. Anche rispetto ai farmaci anti-infiammatori non steroidei (Fans) il denaro investito è quattro volte inferiore.

Altro problema da sconfiggere è la resistenza all’idea di combattere il dolore, considerato con rassegnazione come un’inevitabile conseguenza delle patologie. Inoltre, la mancata diffusione in tutto il territorio nazionale deriva da una sanità che genera confusione, a causa di prestazioni molto diverse offerte nelle varie regioni della nostra penisola. Come ricorda l’ultimo rapporto trasmesso dal Ministero della Salute al Parlamento, gli hospice, le strutture che accolgono i malati destinati alle cure palliative, sono 231 per un totale di 2.551 posti letto, ma con palesi squilibri: per esempio, in Lombardia se ne contano ben 60, mentre in Calabria solo 2.

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Eppure in Italia una completa applicazione della legge in questione, la 38/2010, sarebbe di grande aiuto, perché la platea di persone che potrebbero ottenere un miglioramento della qualità della vita, lo scopo della terapia del dolore, è decisamente vasta; infatti, le cure palliative intervengono in tutti quei casi in cui non esistono metodi efficaci per curare determinate patologie o, peggio ancora, se ne ignorano i fattori scatenanti.

Circostanze che trasformano il dolore prolungato in una vera e propria malattia che condiziona la vita di chi ne è vittima. Per tutti questi motivi potrebbero beneficiarne non solo i malati di cancro, ma anche coloro che soffrono semplicemente di mal di schiena, o delle diffusissime cefalee, o delle patologie più varie. Persino l’intesa del 25 luglio 2012 tra Stato e Regioni ha sottolineato l’importanza di rivolgersi anche ad altri pazienti oltre a quelli oncologici.

Insomma, la terapia del dolore si muove all’interno di un perimetro decisamente vasto con cui è inevitabile misurarsi. Interessa, infatti, più di una fascia della popolazione, tra cui quella ancora produttiva, che risente in maniera significativa di un dolore limitante. Intervenire significa aiutare chi è nel pieno dell’attività lavorativa e ridurre i costi sociali legati a queste difficoltà. Inoltre, com’è noto, la nostra società è caratterizzata da un progressivo invecchiamento demografico (secondo alcune stime, gli over 65 in Europa erano 87 milioni nel 2010 e saranno 148 milioni nel 2060), che aumenterà il numero di anziani, gli individui più colpiti da patologie degenerative e bisognosi di cure palliative. Infine, parallelamente, in tempi recenti è nata una categoria ancora più delicata, formata da minori affetti da malattie inguaribili; infatti, grazie ai progressi medici degli ultimi anni, si è ridotta la mortalità dei bambini con patologie gravi e sono sempre di più quelli che necessitano di assistenza speciale nelle varie fasi della vita. Sempre dall’ultimo rapporto trasmesso dal Ministero della Salute al Parlamento risulta proprio che i minori affetti da malattie bisognose della terapia del dolore sono raddoppiati negli ultimi dieci anni.



Emerge, però, anche un altro dato particolarmente significativo: solo il 18 percento dei 266 pediatri intervistati in tutta Italia nel 2014 conosce la legge 38/2010. Una carenza preoccupante dei professionisti del settore che il Ministero della Salute ha cercato di combattere organizzando ogni anno, dal 2001, la giornata nazionale del sollievo. Dal 2006 ha anche istituito un riconoscimento (premio Gerbera) destinato alla struttura più meritevole nell’applicazione del controllo del dolore. Impegno lodevole, ma che non ha comunque impedito il diffondersi di un’offerta di assistenza disomogenea sul territorio nazionale; infatti, sempre dal rapporto al Parlamento, si vede una maggiore attività in alcune regioni del centro-nord (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio).



Aumentano comunque i pazienti terminali assistiti a casa (incremento del 30 percento) che nel 2014 risultano 52.109, di cui 44.842 affetti da una malattia oncologica. Diminuiscono invece i decessi in ospedale di coloro a cui è stato diagnosticato un tumore (si è passati da 47.537 nel 2012 a 44.725 nel 2013). Pertanto, una situazione ancora non ben definita, con luci ed ombre.

«C’è una consapevolezza diffusa, più che in passato, che il dolore deve essere lenito». Sostiene Domenico Gioffrè, docente di Bioetica del dolore e delle cure di fine vita presso l’Università di Pisa. «Ma circa il 30 percento degli operatori sanitari non conosce l’esistenza della legge 38, la cui implementazione non si è ancora compiuta, soprattutto per quanto riguarda la registrazione del dolore in cartella clinica, che rappresenta una delle maggiori innovazioni in tema di diritto di ogni cittadino a ricevere i farmaci per alleviare il dolore quando si è ricoverati».

Oltre a proseguire con una corretta informazione bisogna quindi intervenire già durante la preparazione dei futuri medici. «Il tema dell’aggiornamento degli ordinamenti didattici è tutto da affrontare, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti “educazionali”, ossia il dovere di ciascun medico di ridurre il dolore nelle forme acute, quando esso ha esaurito il suo “messaggio diagnostico”, e nelle patologie croniche quando assume il carattere di “malattia”, anch’essa da curare - continua Gioffrè - Per il “dolore malattia”, in particolare, non esistono attività didattiche di Medicina del dolore obbligatorie. Il dolore viene insegnato solo come sintomo finalizzato alla formulazione di una diagnosi. Non più del 10 percento degli studenti di medicina dice di sapere cosa sono le cure palliative».



Un’ulteriore criticità è il ridotto consumo di farmaci cannabinoidi, anche se di recente si sono intravisti alcuni segnali incoraggianti. Per esempio, la possibilità di prescrizione anche da parte del medico di base o la coltivazione in Toscana, all’interno di uno stabilimento chimico militare, proprio di cannabis per uso medicinale (una scelta che aiuta ad evitare costose importazioni dall’Olanda o addirittura il rischio che i cittadini si rivolgano al mercato nero). È stato rilevato persino un utilizzo crescente di questi farmaci nel triennio 2012-2014 (in alcuni casi si registra un aumento del 30 percento), ma in Italia risulta ancora troppo difficile procurarsi la cannabis per uso terapeutico, nonostante già dal 2007 ne sia prevista la possibilità. «Come tutte le novità anche la prescrizione medica della cannabis fa registrare ritardi insopportabili - precisa sempre Gioffrè - Il timore, come al solito, è quello della gestione degli effetti collaterali sui quali non c’è ancora una cultura diffusa». Un impiego limitato che conferma il quadro relativo alla legge 38/2010, ancora troppo poco nota al grande pubblico.