Continue ovazioni invadono i programmi. Dovrebbero alimentare l’empatia. E invece?segnano la distanza dalla realtà dei fatti  

Un applauso. Poi di botto un altro. Poi un altro ancora e, a distanza di pochi secondi o minuti, l’ennesima scarica isterica di mani battute dal pubblico senza che da casa si colga la necessità di tale liturgia. «Boh...», è il commento fluttuante sui divani domestici. Seguito da una domanda lecita: perché Giovanni Floris ha trasformato Dimartedì su La7 in un contenitore ossessivo di applausi? E come fa, dall’alto del suo mestiere, a non cogliere il distacco che questa dittatura sonora impone tra chi è presente in studio e chi al contrario impugna il telecomando?

Miopia catodica, potrebbe essere battezzata. La stessa che spunta, anche se con altre modalità, la domenica sera su Raitre a Che tempo che fa. Un devastante, roboante e al tempo stesso raggelante entusiasmo plaudens. Niente di comparabile con il livello di ciò che nello stesso istante accade davanti alle telecamere. Come quando Fabio Fazio, titolare dello show in questione, è riuscito nell’impresa atomica di deludere intervistando il gigante Jeremy Irons, e preferendo al sapore delle infinite profondità esplorabili il divagare insistito tra rivoli di folklore. Comunque sugli spalti è esplosa somma euforia. Applausi, applausi e ancora tanti applausi. Non soltanto in segno di apprezzamento, sempre e comunque lecito, ma come esorcismo involontario contro la costante avanzata della modestia.

Funziona così. Troppo spesso la televisione generalista da un lato sperpera il proprio bagaglio di credibilità, e dall’altro lato invece di costruire nuovi modelli performanti d’informazione e intrattenimento occulta la propria decadenza con artifici infantili. Tipo gli applausi a cascata, appunto. Tenerissimi, a modo loro. E però anche un po’ mesti in quanto sintomo del vuoto creativo e artistico. Non basta, in altre parole, rattoppare con quattro stracci il passato per reggere il vento della contemporaneità, e neppure compiacersi degli ascolti che ancora non franano. Servono la disciplina della qualità e il coraggio di contaminarsi con un ingrediente magico chiamato “verità”, ovvero con l’anima più autentica del corpo sociale.

Non una missione impossibile, neppure per un mezzo già umanamente bacato come la tv. Basti pensare a cosa accade ogni domenica sera alle 22.50 su Raitre, quando il palinsesto ospita I ragazzi del Bambino Gesù. All’improvviso si respira ottimismo, speranza, brivido di un’Italia matura. E tutto questo grazie a un documentario che in teoria avrebbe potuto essere il dramma dei drammi (visto che mostra un anno di vita di dieci adolescenti ricoverati per gravi patologie all’ospedale pediatrico di Roma), e invece è l’opposto. Un inno laico all’amore e alla speranza. Anche senza applausi e altri effetti speciali. Giusto con la voglia di entrare nel cuore dei fatti e dei sentimenti per estrarne il senso onesto e intimo. Formula insuperabile, al di là del tema trattato, eppure poco applicata.

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