Personaggi poco convincenti. Battute finte. Interni da miniserie. La pellicola che racconta il presunto successo di Matteo Achilli e della sua azienda non convince su nessun fronte. E il regista D’Alatri perde un’occasione

Qualche anno fa Matteo Achilli, studente liceale romano della Bocconi, ha inventato una piattaforma on line che, attraverso un algoritmo, avrebbe permesso alle aziende di trovare personale, schedato in base alla formazione e alle capacità: una specie di classifica per merito per rivoluzionare il sistema di reclutamento. Diventato celebre grazie a un’intervista alla Bbc, Achilli è apparso spesso sui media, suscitando anche perplessità (c’è chi sostiene che la sua invenzione sia un bluff).

Per raccontarne la storia, D’Alatri sceglie uno sviluppo narrativo scontato, con l’ossessione per la propria idea che fa dimenticare al protagonista la lealtà verso il socio nerd e l’amore per la fidanzata ballerina. Classico film finto-giovane, “The Start Up” negli esterni propone montaggini da spot di trent’anni fa, negli interni scenette domestiche o sentimentali da miniserie di Rai 1, e in più ci mette il sogno subacqueo stile L’Atalante e le scene metaforiche con la danza classica.
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Il suo senso, però, è anzitutto ideologico. Privi di spontaneità, burattini dell’autore, i giovani del film hanno in bocca battute finte, e i personaggi sparano continuamente frasi tipo: «Tu devi ragionare come gli imprenditori di una volta, che producevano cose che duravano»; «Qui non siamo nella Silicon Valley, siamo in Italia. Qui l’unica impresa che rende è la politica», e così via. Insomma, la pesantezza ideologica (e il tasso di malafede) di un film di propaganda sovietico del 1950, solo che al posto dei commissari del popolo e del socialismo reale ci sono il Mercato, la Meritocrazia e gli Imprenditori di Se Stessi. Colpo di grazia è la continua, smaccata pubblicità alla Bocconi, come l’acqua Peyo o il Punt e Mes negli anni ’70: «La Bocconi è la prima», «Non è importante cosa studi, ma dove», «Questa non è un’università qualunque», più o meno con i toni dello studente calabrese anni ’80 del “Drive In”.

In effetti, al di là della bruttezza del risultato, lascia perplessi anche il fatto che con soldi pubblici (Mibact e Raicinema) si sia finanziato un film che è in buona parte uno spot per un’università privata