Decine di migliaia di ragazzini sono stati indottrinati e arruolati dal Califfo, rimanendo spesso orfani. Oggi, a Mosul, le autorità non vogliono occuparsi di loro e i certificati di nascita rilasciati da Daesh 
non valgono (Foto di Alessio Romenzi)

Ali, trent’anni, è un dottore. Da due mesi, dopo che il suo quartiere è stato liberato, l’ospedale per cui lavora a Mosul est è stato riaperto. Durante l’offensiva per riconquistare la parte orientale della città, a novembre, la struttura era stata attaccata da un’autobomba che aveva ucciso una dozzina di soldati iracheni. I segni di quel giorno sono su ogni muro: Ali cammina tra i corridoi semidistrutti, tra i vetri delle finestre rotti dai combattimenti, si guarda intorno come se fosse costantemente controllato.

Quando sono arrivate le parate di bandiere nere dell’Isis nel 2014, Ali non è riuscito a scappare da Mosul e ha continuato a fare il medico anche sotto le minacce dei miliziani di Al Baghdadi. «Non avevamo medicine, vietavano a chiunque di lasciare la città, anche ai malati più gravi, per questo restare qui per molti ha rappresentato una condanna a morte. Sono nati migliaia di bambini a Mosul in questi due anni e mezzo, nessuno di loro è stato vaccinato e chi era malato era destinato a morire. Quando bussavo alle porte dei loro uffici e chiedevo medicine, ricevevo farmaci scaduti: se provavo a protestare, rischiavo punizioni corporali».

Ali ora ha deciso di restare a Mosul e non andare a vivere nei campi profughi: «Lo faccio per aiutare la mia gente: due settimane fa nel mio quartiere è arrivato un razzo e sono sicuro ci fossero componenti chimici. I bambini hanno tossito per giorni, ne ho curati decine qui in clinica. L’Isis è ancora tra noi, non siamo al sicuro, sappiamo chi li nasconde, sappiamo quali sono le famiglie che li ospitano».

Ali teme che la calma di Mosul est sia solo apparente, ha paura di attentati e sa di essere un obiettivo sensibile, non solo perché sta aiutando i civili, ma anche perché ha visto molto. Troppo. Ha visto bambini soldati controllare la sua clinica e minacciare i medici armati di kalashnikov, ha visto piccoli trascinati via da un orfanotrofio: «Erano centinaia, lì dentro, sono stati certamente reclutati. Poche settimane dopo l’inizio della guerra l’Isis ha costretto tutti i bambini e le bambine a lasciare l’edificio, hanno tenuto le ragazze come schiave e costretto i maschi a combattere. Questa generazione di bambini vissuti ed educati sotto l’Isis rischia di diventare una generazione perduta. Una generazione pericolosa e l’Iraq oggi non ha i mezzi e forse neppure la volontà per guarire i loro traumi».
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FUGA TRA I CADAVERI
La seconda fase della guerra per riconquistare Mosul è più feroce e distruttiva della prima. I miliziani dello Stato islamico sanno di essere accerchiati e la loro follia suicida aumenta di giorno in giorno: gli strumenti di morte sono le autobombe e i mortai, quotidiani e inaspettati. Gli strumenti di punizione - per i civili in fuga e per i soldati in battaglia - sono le mine e le trappole esplosive nascoste ovunque prima di lasciare quartieri e villaggi.

Liberare Mosul, per l’esercito iracheno, significa combattere casa per casa, liberare i civili sotto assedio nascosti al buio, negli scantinati, senza cibo e senza acqua. Significa distinguere i miliziani nascosti tra le decine di migliaia di profughi in fuga, accertarsi che tra loro non ci siano attentatori suicidi. Significa recuperare i cadaveri - decine - di civili uccisi dall’Isis o dai bombardamenti della coalizione, come quello nel quartiere di Jadida che avrebbe ucciso più di 150 persone.

L’Espresso ha ottenuto un raro accesso al fronte con i soldati della Golden Division, le unità speciali dell’esercito iracheno. Abbiamo percorso con i soldati di Baghdad centinaia di metri lungo la prima linea del fronte di Mosul ovest, attraversando decine e decine di buchi scavati nelle pareti dai miliziani dell’Isis per camminare indisturbati, nascondendosi dal nemico.
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A pochi metri da noi, al centro di una piazza c’erano ancora issate le bandiere nere del Califfato: toglierle era troppo pericoloso perché ogni spazio aperto ci rendeva bersaglio per i cecchini.

Tra le macerie delle case, i resti di granate, i fili elettrici per gli ordigni esplosivi, i cadaveri dei miliziani uccisi poche ore prima.

Il colpo di un cecchino ci ha sfiorato, all’improvviso, e costretto a nasconderci in una casa in attesa che calasse la sera, insieme a decine di civili. «Non mangiamo da giorni, hanno usato i nostri figli come scudi umani», dice Mahmoud dopo aver abbracciato un soldato che ha portato ai suoi familiari un po’ di pane. «Sono entrati in casa e ci hanno costretto a seguirli per evitare i bombardamenti. Mio figlio parla a stento, è traumatizzato dalle minacce dell’Isis, dal rumore delle bombe e dei mortai».
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Makhmoud lo stringe a ogni rumore di proiettile, lo stringe ogni volta che arriva un mortaio, sempre più vicino, sempre più assordante. Il bambino spalanca gli occhi e ripete: «Isis è grande, Isis è grande».

«Mi vergogno che dica queste parole», dice Makhmoud, «per due anni e mezzo hanno riempito la sua testa di menzogne, di violenza. Sono disperato e preoccupato di non riuscire a spiegargli che deve dimenticare».
Una sola cosa consola Makhmoud, cioè che suo figlio non sia stato reclutato, non sia stato costretto a uccidere. E che non sia stato usato per attentati suicidi.

I soldati iracheni raccontano di aver visto combattere bambini, anche di dieci anni, addestrati e accecati dall’odio. «La prima volta che mi sono trovato di fronte dei bambini armati è stato un colpo», dice Hasan, un soldato quarantenne che ha combattuto anche a Falluja e a Tikrit. «Non è la stessa cosa puntare e uccidere un adulto e puntare e uccidere un ragazzo, un bambino. Ma abbiamo dovuto farlo, avevano tutti le cinture esplosive, un attimo in più di esitazione avrebbe significato condannare a morte molti di noi».

I soldati iracheni raccontano che nelle ultime settimane molti ragazzini sono stati usati come attentatori suicidi. «È una crudeltà che non ha fine», continua Hasan, fumando nervosamente. «È questo che rende più sporca questa guerra: questo dolore violento, sapere di combattere contro bambini che non hanno colpe ma pagano con la vita per essere stati indottrinati in nome di una religione malata».

Dopo ore, un messaggio via radio informa che le postazioni dei cecchini sono state identificate e l’edificio di fronte al nostro sta per essere bombardato. Lo schianto fa tremare le pareti e distrugge i vetri. Dopo, solo un lungo silenzio. Nei volti dei civili la preoccupazione lascia spazio al sollievo di poter andare finalmente via dalle proprie case distrutte.

La fuga è un cammino di chilometri tra i cadaveri dei miliziani dell’Isis, sotto la pioggia incessante da giorni, senza un riparo, con i piedi nel fango.
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“NON CI IMPORTA SE MUSHAK È MORTO”
Migliaia di bambini nati sotto il Califfato non hanno certificati di nascita ufficiali. Quelli rilasciati dall’Isis non hanno valore e molti civili in questi anni hanno deciso di non tracciare né le nascite né i decessi dei propri familiari, per non essere scambiati per collaborazionisti, una volta liberata la città. Secondo la Quilliam Foundation, organizzazione che monitora il terrorismo internazionale, sarebbero almeno 30 mila i bambini nati a Mosul sotto lo Stato islamico nell’ultimo anno e mezzo. Per loro ottenere un documento valido di identità in Iraq sarà un percorso lungo e complesso. Molte amministrazioni locali stanno rifiutando di concedere documenti ai bambini nati sotto l’Isis per timore che siano figli dei miliziani. Oggi questi 30 mila bambini sono di fatto apolidi.

Bambini senza stato, senza nazionalità, senza diritti. Bambini che non hanno accesso a nessun servizio: né le cure mediche, né l’istruzione. Per tutti gli altri, per i bambini che erano già in età scolare durante l’occupazione di Mosul, la scelta era tra le scuole del Califfo o la mancanza totale di istruzione.

Marwa oggi ha sedici anni, è tornata a scuola a Mosul est, ha perso il padre ucciso da un colpo di mortaio a dicembre. «Mio padre era un giudice», racconta con voce da adulta, «per due anni ha ripetuto a me e mio fratello che dovevamo essere forti, resistere senza esitazione. Parlavamo molto, esercitavamo quotidianamente la nostra memoria, avevamo nascosto dei libri per non perdere l’abitudine di studiare, di leggere e scrivere».

Marwa ha visto i miliziani dello Stato islamico, tra di loro anche bambini, gettare dall’ultimo piano dei palazzi dei ragazzi accusati di essere sessualmente attivi. È stata arrestata tre volte dalla polizia islamica femminile perché non indossava i guanti, perché la sua pelle non era interamente velata di nero. «Mio fratello aveva solo otto anni quando sono arrivati i miliziani dell’Isis. Un giorno è tornato a casa dicendo che i nuovi insegnanti avevano portato un nuovo libro di matematica. Insegnavano le addizioni sommando le bombe e i proiettili. Il giorno dopo il figlio di un miliziano iracheno dell’Isis è entrato in classe con un coltello per insegnare agli altri bambini come sgozzare un “infedele”. Dal giorno dopo né io né mio fratello abbiamo più messo piede in una scuola».
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Il figlio di Amir, invece, a scuola non c’era mai andato. La loro è una famiglia poverissima di Hamam al Alil, cittadina a sud di Mosul, fortino di jihadisti. Hamam al Alil è stata liberata lo scorso novembre, Amir ha vissuto per un po’ in un campo profughi e quando ha deciso di tornare a casa sua l’ha trovata distrutta. Non dai combattimenti e dai colpi di mortaio, ma dalla violenza cieca suoi vicini, che l’hanno saccheggiata. Perché il figlio di Amir, Mushak, aveva giurato fedeltà al Califfo quando aveva undici anni. «Era un ragazzo povero, pieno di rabbia, non sapeva leggere né scrivere, sapeva solo lavorare. E loro gli hanno insegnato l’odio per gli infedeli.

E gli hanno insegnato a uccidere», dice Amir, il viso segnato dalla fatica e dal dolore. Mushak è stato reclutato in pochi mesi per diventare un soldato, un combattente. I miliziani di Al Baghdadi non lo hanno portato nelle scuole islamiche, non gli hanno insegnato a leggere e scrivere, né a sommare proiettili e pistole, gli hanno insegnato solo a odiare ed uccidere.

«In ogni quartiere e villaggio c’era qualcuno di loro che era addetto a reclutare i bambini», continua Amir. «Mio figlio è stato addestrato per combattere e in due anni e mezzo è diventato un soldato della polizia islamica. A meno di quattordici anni. Ho provato a impedirgli di giurare fedeltà al Califfo, lui mi ha detto: “Stai zitto o ti tagliamo la testa”. Il giorno dopo è entrato in casa con la pistola e mi ha minacciato. Ha rotto un braccio a sua madre che lo implorava di salvarsi e abbandonare quel gruppo di fanatici assassini».
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Amir sostiene che più della metà dei bambini di Hamam al Alil è stata reclutata e da quando è iniziata la guerra di molti di loro non si hanno notizie.

Qualcuno gli ha detto che suo figlio potrebbe essere morto durante un bombardamento della coalizione, ma Amir abbassa lo sguardo, respira profondamente e dice: «Non sono spaventato all’idea che sia morto. Davvero, non mi interessa che sia morto, non lo sappiamo e non vogliamo saperlo. Mushak è la vergogna della nostra famiglia. Ora qui tutti ci odiano, siamo disperati, non possiamo nemmeno andare a fare la spesa, viviamo chiusi in casa per paura di essere linciati in mezzo alla strada. Abbiamo perso tutto: un figlio, la casa, la dignità, qualsiasi cosa».

Il destino della famiglia di Amir è il triste prologo del futuro prossimo dell’Iraq. Un futuro in cui la parola pacificazione sembra essere un miraggio. Un futuro in cui la guerra per riconquistare Mosul non avrà veri vincitori, perché la vera battaglia, quella per sradicare i fondamentalismi che hanno riempito i vuoti di potere, è lungi dall’essere vinta.

Nel presente, intanto, mentre il mondo ha puntato gli occhi sulla riconquista della capitale irachena del Califfano, i giovani reclutati dall’Isis si stanno riorganizzando in altre zone del paese, approfittando dell’instabilità politica e della povertà.
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Nei pochi caffè riaperti di Mosul est, dove gli uomini si riuniscono per commentare le notizie dell’offensiva, la spirale di odio ha già preso la forma della vendetta.

Di fronte agli schermi televisivi con la notizia di un bambino fuggito da Mosul e ritrovato con una cintura esplosiva, un uomo commenta: «Non possiamo rieducarli, tanto vale ammazzarli tutti, questi bambini». Raccogliendo il consenso dei presenti.

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