Washington vuole parlare solo con Berlino. Mosca finanzia i nazionalisti. Ankara interferisce nelle elezioni. Solo uniti gli europei potrebbero rispondere alla sfida
Trump, Putin, Erdogan: se qualcuno dubitasse del grado di decomposizione attuale dell’
Unione Europea basterebbe osservare come questi leader, e le potenze che rappresentano, dividano la rissosa famiglia comunitaria. E insieme come Stati Uniti, Russia e Turchia non abbiano molto in comune, salvo la decisa avversione alla nascita di un’Europa capace di farsi valere sulla scena geopolitica globale.
Più specificamente, nessuno a Washington, Mosca e Ankara auspica l’affermazione di una Grande Germania vestita con il blu e le gialle stelle dello stendardo Ue. E ciascuno dei tre paesi vigila affinché questa ipotetica Eurogermania non stringa troppo strette intese con uno o due degli altri.
A
i tempi della guerra fredda, l’Europa occidentale economicamente saldata nella Cee obbediva alla regola della Nato: americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto.
Oggi, l’Ue allargata a 28 (presto a 27, dopo la fuoriuscita del Regno Unito), si misura con il (relativo) disimpegno americano, le velleità di potenza della Russia e la centralità geoeconomica della Germania. E in più affronta lo “scontro di civiltà” con la Turchia che sembra rievocare la battuta con cui un cancelliere austriaco liquidò l’eventuale ingresso turco nell’Unione Europea: «Impossibile, noi abbiamo avuto l’assedio di Vienna».
Ma che cosa vogliono americani, russi e turchi da noi europei? Distinguiamo, in ordine di potenza.
Il braccio destro di
Trump, Steve Bannon, ha recentemente convocato l’ambasciatore di Berlino a Washington per comunicargli che d’ora in poi, discutendo questioni europee, avrebbe trattato direttamente con lui, non avendo tempo da perdere con i signori di Bruxelles.
Il riferimento era anche ai magniloquenti moniti anti-trumpiani del presidente della Commissione, il lussemburghese
Jean-Claude Juncker, percepiti come classico ruggito del topo. Al di là dello stile, resta la sostanza: per Washington - non solo per Trump - l’Europa non è affatto una priorità. Eventualmente, interessa la Germania. Per il resto, gli interessi strategici statunitensi sono imperniati sull’Asia-Pacifico e sulla riscoperta del nemico russo, cui la Cia attribuisce nientemeno che la manipolazione delle elezioni presidenziali.
Agli europei si chiede di pagare la retta Nato - 2% del Pil da devolvere alle spese militari, obiettivo cui quasi tutti i soci veterocontinentali sfuggono allegramente - e di non sfidare l’ordine neomercantilista che Trump vorrebbe affermare nel mondo. In quest’ultimo caso, il rivale è certamente la Germania, potenza economica di prima classe, basata sul commercio, in surplus con il resto del mondo. Il freddissimo vertice Trump-Merkel è il riflesso di questa latente rivalità, già emersa sotto Obama (spionaggio del cellulare della cancelliera, Dieselgate, eccetera). Berlino replica ergendosi a protettrice di quei valori universali e liberali che considera minacciati da Trump. Risultato: mai, dal 1945 a oggi, l’Atlantico è parso più largo.
Quanto alla
Russia. Nemmeno trent’anni fa i soldati russi erano orgogliosamente a Berlino, esibendo la stella rossa sui loro colbacchi. Oggi sono informalmente a Donec’k, bacino del Donbas, nell’Ucraina orientale, a supportare la guerriglia anti-Kiev: oltre duemila chilometri più a est. Eppure il ratto della Crimea, con un colpo di mano che ha sorpreso il resto del mondo, ha convinto molti europei che l’impero moscovita intenda spingersi nuovamente verso ovest, a rischio di una guerra nucleare contro la Nato.
Questa è la percezione dominante nei paesi collocati fra Mar Baltico e Mar Nero, fra Svezia e Romania, con la Polonia neonazionalista quale perno dello schieramento antirusso. A mano a mano che nell’ambito dell’Unione Europea ci si sposta verso occidente, il grado di russofobia si addolcisce, fino a toccare in Italia il culmine della russofilia: sia Renzi che Gentiloni non hanno fatto mistero di auspicare la fine delle sanzioni anti-Russia, che penalizzano seriamente la nostra economia.
Quanto alla Germania, è piuttosto ambigua: Merkel detesta Putin, essendone cordialmente ricambiata, ma ciò non le impedisce di benedire, in pieno regime di sanzioni (che peraltro l’industria tedesca quando vuole sa aggirare), un formidabile accordo energetico con Mosca, quale il raddoppio del gasdotto Nordstream.
Intanto
Putin supporta e spesso finanzia neonazionalisti e separatisti che minacciano la stabilità dei paesi comunitari, usandoli come strumento di pressione contro i rispettivi governi o addirittura auspicandone il successo. In questo simile a Trump - invero al resto del mondo: con gli europei si tratta meglio bilateralmente, in posizione di relativa forza.
Lo sconvolgimento più recente sul fronte esterno l’Ue lo vive a sud-est. La Turchia si sta spogliando dei suoi vestiti democratici e liberali, per rivelarsi sempre più autocratica e intollerante.
Erdo?an aveva usato i negoziati con l’Unione Europea non perché credesse veramente di essere ammesso fra i soci comunitari, quanto per tagliare le unghie ai militari.
I quali, conformemente ai vincoli e ai costumi europei, si sarebbero dovuti accomodare nelle caserme smettendo le ambizioni politiche. Liquidati i militari sulla scia della repressione del fallito golpe dei 15 luglio scorso, oggi il presidente turco non ha più bisogno della leva europea per contenerne le incursioni in campo politico.
Di più, ospitando circa tre milioni di profughi siriani sul proprio territorio, minaccia di lasciarli partire verso l’Europa, per ottenere in cambio denaro e facilitazioni (ingresso senza visto per i cittadini turchi nello spazio comunitario).
Il tentativo di allargare alla Germania e ad altri paesi europei la sua campagna elettorale in vista del referendum sul presidenzialismo è solo l’ennesima spia della tensione con lo schieramento Ue, Berlino in testa. Ma anche in questo caso, in Europa le posizioni sono tutt’altro che uniformi.
Il giorno in cui noi europei ci ritroveremo insieme nel rapporto con Stati Uniti, Russia e Turchia vorrà dire che avremo compiuto un grande passo nell’avvicinare “l’unione sempre più stretta” evocata dai Trattati di Roma. Sessant’anni dopo, quel giorno pare sempre più lontano.